Per quanto questo titolo possa far pensare subito a Liza Minnelli e al buon vecchio Scorsese, in realtà appartiene ad una mostra tenutasi tempo fa presso il Museo del Novecento di Milano. New York New York: arte italiana alla scoperta dell’America puntava a raccontare la vicinanza e la fascinazione che i nostri maggiori artisti del secolo scorso provarono a contatto con la nazione che sarebbe poi diventata la guida del mondo Occidentale.
Per provare a ripercorrere quelle stanze che così tanto mi avevano colpito, bisogna riprendere le opere dell’esposizione come se fossero di fronte a noi. All’inizio troviamo De Chirico (1888-1978) ad occupare la prima parte della mostra, insieme a Fontana (1899-1968) e Consagra (1920-2005): si comincia indagando sulla prima percezione della città da parte di artisti usciti fuori dal loro ambiente, sentendo, sotto le pennellate metafisiche o le lastre delle installazioni, la nostalgia che molti nostri connazionali hanno conosciuto sulla loro pelle o il tentativo di definire lo spazio per cercare una sicurezza nel “Nuovo Mondo”.
Emblematico in questo senso è il dipinto di De Chirico “Il saluto dell’amico lontano” (1916), in olio su tela, dove le forme essenziali e i colori primari vengono usati come base per oggetti quanto mai familiari al pittore: i biscotti ferraresi. Al maestro della Metafisica non mancherà di sentire sulla sua pelle, quasi sessant’anni dopo, uno straniamento quasi onirico tra cultura antica e una città “eternamente nuova” come la Grande Mela, esprimendosi nel dipinto “Il mistero di Manhattan” (1973).
Con Fontana il tono è diverso: la sua riflessione sugli spazi newyorchesi ci porta al Concetto spaziale “New York City” (1962), in cui le strade e i palazzi sono colti nel loro minimalismo più totale con tagli sul rame o buchi quadrati in cui cogliere le finestre dei nuovi grattacieli, cinquant’anni dopo la prima ricerca artistica di De Chirico.
Sempre per quest’ultimo, come ricordato nella mostra, si ha una consacrazione americana con la personale che ottiene grazie a Julien Levy e Albert Barnes nel 1936. Di quell’anno si ha pure uno studio di De Chirico per una copertina di Vogue, rivista che ci collega indirettamente al capitolo futurista della mostra.
Nella sezione dedicata al futurismo troneggia Fortunato Depero (1892-1960), arrivato nel 1928 in America e già riuscendo ad esporre un anno dopo alla Guarino Gallery, dando al pubblico newyorchese un assaggio del nuovo movimento europeo. L’attività dell’artista nella Grande Mela, durata due anni intensi, varia dai disegni paroliberi alle bozze delle copertine di Vogue e le opere in china, tra cui la bellissima “Broadway, folla, Roxy theatre” (1930), con china diluita e tempera, che ben rende la sensazione caleidoscopica e selvaggia della via dello spettacolo nella “Babele” del futuro.
Nel percorso non poteva poi mancare una citazione doverosa alla Comet Art Gallery e alla figura di Corrado Cagli (1910-1976). Proseguendo si potrà ammirare “Notte a New York” (1962-3) di Titina Maselli (1924-2005), che omaggia le serate newyorchesi con tocco quasi psichedelico e Costantino Nivola (1911-1988) con il suo “The unbelievable city” (1979), magnifico nella sua capacità di rappresentare le tensioni della vita di New York e il tremolio dei corpi e dei palazzi, quasi fosse tratto da una foto o dal film “La folla” (1928) di King Vidor.
L’ultima parte del percorso è poi dedicata al trauma internazionale dell’assassinio di J.F.K., che ispira Arnaldo Pomodoro (1926), Sergio Lombardo (1939) e Mimmo Rotella (1918-2006), che crea per ricordare l’evento il pezzo “The assassination of Kennedy” (1963), simbolo stesso della mostra e grande omaggio pop al presidente.
Si passi alle fotografie di Ugo Mulas (1928-1973) come tentativo fotografico di comprensione della Grande Mela, in un’opera di esplorazione iniziata dal 1964. Per un totale di 150 opere, l’esposizione riesce nel suo intento con un percorso fluido ed essenziale, sintetico ed intenso, soprattutto per la pittura, che è privilegiata. Con queste opere si spera d’essere riusciti a scavare nell’ammirazione per l’America, ma sarebbe stato più giusto vedere un maggiore approfondimento per la descrizione delle opere singole, soprattutto per chi è nuovo rispetto a certe correnti del 1900.
Antonio Canzoniere