È strano osservare le generazioni cresciute davanti alla televisione ed a Youtube, scimmiottare degli atteggiamenti razzisti che proprio non gli appartengono: rapper e pop star afroamericane, cartoni animati giapponesi, eroi di arti marziali cinesi, guide spirituali indiane e chi più ne ha, più ne metta. Siamo semplicemente cresciuti nella diversità ed abbiamo appreso la parola “razza” soltanto dai libri di storia.
Le generazioni nate dalla metà degli anni ’70 fino ad oggi non hanno nulla a che fare con il razzismo: le loro menti non sono mai state avvelenate dall’odio razziale e sono state cresciute da un ventaglio di intrattenimenti televisivi, letterari e cinematografici, internazionale ed interculturale. Sfido chiunque a dimostrare il contrario.
“RAZZA” NON È UNA PAROLACCIA
Ma soprattutto: perché si parla ancora di razze umane?
Iniziamo subito a dire che la parola RAZZA non è una parolaccia o un’offesa, ma una semplice categoria tassonomica, per cui non bisogna averne paura, né tantomeno abusare di questo termine.
Quando uno zoologo vuole scoprire, ad esempio, quanto due animali siano geneticamente imparentati tra loro, adopera un calcolo sulla distanza di mappa (frequenza di ricombinazione in percentuale). Minore è tale distanza tra i genomi, più stretta sarà la parentela.
In zoologia, da svariati decenni si adopera, per la minore distanza di mappa, la sottospecie, relegando la categoria di razza solo alcuni animali, come il cane, il gatto, il cavallo ed alcuni insetti, la cui selezione è stata effettuata dall’uomo.
Insomma, non esiste la razza umana e nemmeno esistono le sottospecie poiché la distanza di mappa tra (ad esempio) un etiopico ed un eschimese si ferma alla specie comune Homo Sapiens. La scienza, si sa, a differenza della vanagloria del “buonismo” non è democratica ed un fenomeno naturale dimostrato, non diventa più o meno vero per alzata di mano!
DIFFERENZE TRA POPOLI. PER QUALE MOTIVO LE OSSERVIAMO?
Di contro è ovvio che esistano svariate differenze fisiche e somatiche tra gli esseri umani delle varie aree del pianeta. Come mai? A cosa servono, ad esempio, gli occhi a mandorla o la pelle scura?
Partiamo da un presupposto semplice: le differenze endemiche nell’umanità sono percepibili ad occhio (fenotipo), ma tali differenza hanno un riscontro estremamente scarso sul piano genetico (genotipo).
Quando i nostri antenati hanno assunto una postura eretta è cambiato qualcosa anche nella nostra “emotività” di percepire il prossimo: invece di annusarci reciprocamente abbiamo iniziato a guardarci negli occhi.
Può sembrare un dettaglio di poca importanza, ma la nostra neurobiologia ci ha portato a dare la massima importanza alle informazioni visive, al riconoscimento dei volti dei nostri familiari e degli estranei.
Spesso, quando guardiamo le nuvole o le venature del legno, riusciamo a scorgere volti umani (e qualche volta santi), poiché la nostra mente è proiettata a cercare di riconoscere un altro essere umano, come priorità assoluta.
La capacità di adattamento dell’essere umano è unica nel suo genere dato che ci muoviamo in branco, ci organizziamo, modifichiamo l’ambiente e ci dividiamo i ruoli.
La nostra cooperazione ci ha permesso, una volta usciti dall’Africa, di essere dei migranti perfetti, in grado di colonizzare ogni ambiente, da quelli equatoriali a quelli artici. Con la seconda grande migrazione (Out of Africa) ci siamo stabiliti nelle più improbabili aree del pianeta e la forma dei nostri corpi, col tempo, si è adattata alle varie ecologie, non potendo ancora contare su tecnologie moderne. http://www.einaudi.it/libri/libro/steve-olson/mappe-della-storia-dell-uomo/978880616678
IL COLORE DELLA PELLE
Il più evidente (ed urgente) di questi cambiamenti fisici è stato modificare il colore della pelle. Quando infatti i nostri progenitori hanno iniziato a perdere la pelliccia, si sono ritrovati con una pelle povera di melanina e quindi molto chiara. Per i primi umani anatomicamente moderni sarebbe stato impossibile vivere nel continente africano con una pelle chiara, poiché l’insorgenza di melanomi (tumori della pelle) avrebbe estinto il genere umano.
Per tale motivo l’aumento di melanina nella pelle ha avuto concentrazioni sempre maggiori: la melanina è un vero e proprio schermo per l’irradiazione solare. Di contro, nelle popolazioni che si erano stabilite molto più a Nord, la troppa melanina, in zone poco assolate, avrebbe diminuito la sintetizzazione naturale della vitamina D, creando generazioni affette da rachitismo. Pertanto l’evoluzione ha privilegiato una pelle molto più chiara e più adatta ad un ambiente in cui il pericolo non fossero stati i tumori della pelle.
Il colore della pelle, negli esseri umani, varia quindi in base all’irradiamento solare infatti, se andiamo all’estremo Nord oppure in Mongolia, troveremo popolazioni dalla pelle più scura, poiché in quelle regioni ghiacciate il sole non arriva solo dall’alto, ma si rifrange anche dal basso.
Il colore della pelle quindi, non ha nulla a che fare con i concetti di razza e sottospecie, in quanto si tratta di un fenotipo che serve a far fronte all’intensità dei raggi solari.
LA FORMA DEI CAPELLI
A causa della temperatura anche la qualità dei capelli ha subito utili modifiche. Più si scende verso l’Africa subsahariana e più ritroviamo umani con dei ricci fittissimi. I capelli ricci infatti fungono da cuscinetto di raffreddamento naturale per evitare l’insolazione: tale capigliatura crea più “aree vuote” al suo interno le quali, grazie al sudore, si comportano come micro ambienti che attenuano la temperatura della testa. Le popolazioni che invece abitano luoghi dove non batte direttamente il sole (dall’alto) o dove esso viene attenuato dalla coltre boschiva, presentano infatti capelli più lisci.
GLI OCCHI SONO LO SPECCHIO DELL’AMBIENTE
Gli occhi sono lo specchio dell’anima, ma anche dell’habitat. Il colore dell’iride varia in base alla disponibilità di luce e serve rispettivamente per evitare l’abbagliamento o per ottimizzare la luminosità. In oriente gli occhi a mandorla sono un tratto somatico distintivo e la loro evoluzione è stata fondamentale per resistere ai climi monsonici ed all’inclinazione dei raggi solari: la nostra memoria genetica contiene in tutto 3 palpebre (si tratta ovviamente di un ricordo vestigiale) e l’evoluzione umana, negli orientali, ha portato a saldare la palpebra inferiore con la terza palpebra, in modo da formare una sorta di barriera (plica mongolica) contro infezioni e congiuntiviti.
La versione più estrema di questa protezione viene chiamata occhio a fessura ed è la tipica conformazione degli eschimesi e dei mongoli i quali, ricevendo troppa luce, riflessa dal ghiaccio, hanno sviluppato una protezione maggiore. Anticamente ci faceva riferimento agli occhi a mandorla come caratteristica della razza asiatica, ma anche in questo caso si tratta di un fenotipo che influisce nulla o quasi sulla distanza di mappa genetica.
ANCHE IL NASO È UN CLIMATIZZATORE
Quando dall’Africa abbiamo raggiunto luoghi con temperature molto basse, i nostri bronchi non erano stati ancora avvisati, per cui inalando la gelida aria dell’ambiente avremmo contratto malattie mortali.
A tale scopo la natura ci ha fornito una semplice modifiche: un naso con estensione più diritta, meno all’insù e turbinati più grandi. Ciò permetteva all’aria inalata di avere il tempo di riscaldarsi stando più a contatto con i turbinati, che sono delle ossa nasali piene di vasi sanguigni.
Similmente, nelle popolazione subsahariane nasce il problema inverso: respirare aria troppo secca aumenta l’incidenza di infezioni alle vie respiratorie. A tale scopo il setto nasale si è evoluto provvedendo ad inclinarsi all’insù, creando un ristagno di umidità lungo le mucose in modo da fare arrivare l’aria ai bronchi ed ai polmoni leggermente più umidificata. La forma del naso fu una delle ossessioni degli antropologi del periodo nazista, ma la distinzione della razza in base alla forma del naso non trovò ovviamente riscontri sul piano genetico.
LA LUNGHEZZA DEGL ARTI
Altrettanto noto come escamotage evolutivo è la lunghezza totale degli arti. I popoli di etnia Sherpa, in Nepal, spesso assoldati come portatori dagli avventurieri occidentali, mostrano delle braccia mediamente più corte rispetto alle altre etnie SAARC. Le braccia, le gambe e le mani infatti hanno una capillarizzazione molto estesa e, se troppo lunghe, rischiano una pericolosa dispersione di calore presso i popoli dell’Himalaya. Tale dispersione è invece molto utile nei luoghi caldi ed aridi, per cui le popolazioni subsahariane mostrano corpi estremamente più allungati e longilinei. Prima che le tecnologie alimentari permettessero di mangiare più carne e pesce, indifferentemente dalla latitudine, la dieta umana si basava sulle risorse disponibili. Fino agli inizi dello scorso secolo vi erano significative differenze di altezza tra i popoli (in quel periodo avrebbero parlato di razza umana), cosa che con la globalizzazione sta tendendo a scomparire.
LA POLITICA CHIEDE. LA SCIENZA RISPONDE…DI NO!
Se ogni minimo dettaglio dei nostri corpi è servito ad adattarci ai climi ed agli ecosistemi, la nostra capacità di cooperare per risolvere un problema non ci ha mai allontanato, geneticamente, abbastanza da creare delle sottospecie umane né tantomeno delle razze.
Eppure alla scienza è stato più volte “richiesto” di trovare delle differenze di razza nella biotipologia umana, tali che bastassero a giustificare le politiche del momento. Un buon esempio fu la politica coloniale del XVIII secolo che per sdoganare lo schiavismo agli occhi dell’opinione pubblica, provò a cercare una Scala Naturae per la quale stabilire un ordine gerarchico in cui solo alcuni popoli avrebbero a giusto merito dovuto subire la schiavitù. Purtroppo per i politici, le scienze naturali non trovarono mai degli schemi tassonomici in cui includere anche l’uomo: l’antropometria e la politica non andavano per nulla d’accordo.
Similmente in tempi più recenti, gli scienziati nazisti provarono a tracciare schemi e mappe umane nel disperato tentativo di individuare una qualche differenza significativa all’interno della nostra specie. Anche quella volta il risultato fu ridicolmente vano.
LA TRIBU INTERIORE.
Ogni volta che si parla di migrazioni rinasce lo spettro della nostra tribù interiore, determinata a tracciare una netta linea di separazione tra il SÈ e l’ALTRO.
Ogni volta che cerchiamo di emarginare un gruppo etnico torna lo spettro atavico di una lotta contro la tribù rivale.
Ma dopo essere cresciuti in una estrema varietà culturale, se un qualsiasi politico ce lo “richiede”, ci comportiamo ancora come se stessimo combattendo una guerra tribale con cerbottane e pietre scheggiate?
Le migrazioni sono come l’evoluzione: mirano alla sopravvivenza ed alla speranza di miglioramento della qualità della vita ma, purtroppo, sembra che il mondo badi a confini nazionali che la natura nemmeno sa che esistono.
Dario David