Il 22 maggio 1978 venne approvata la Legge 194: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Per arrivare a questo importante traguardo, ci sono voluti anni di battaglie, proteste, auto-denunce, riunioni di collettivi femminili e campagne di sensibilizzazione.
L’aborto prima della Legge 194
Prima della Legge 194, abortire era illegale: migliaia di donne e ragazze si rivolgevano a mammane e medici consenzienti per poter praticare un’interruzione volontaria di gravidanza clandestina. Tale condizione di clandestinità ha portato alla morte di moltissime giovani. A far luce sul triste fenomeno degli aborti clandestini fu un’inchiesta degli anni Sessanta condotta dal giornale Noi donne: i dati raccolti furono sconcertanti, più di un milione di ragazze e donne abortivano clandestinamente, correndo enormi rischi per la propria salute e anche a livello penale. Inoltre quello degli aborti clandestini era un vero e proprio business per mammane e medici che chiedevano cifre molto alte per praticare un’interruzione di gravidanza.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, iniziò una nuova epoca anche e soprattutto per le donne: per la prima volta poterono andare a votare, ma col passare degli anni cominciarono a prendere maggiore coscienza di sé stesse, del proprio ruolo all’interno della società e dei propri diritti e doveri. Non solo uguaglianza e parità rispetto agli uomini, ma anche una nuova prospettiva verso la condizione femminile. Grazie ad una legge del 1963, le donne ebbero libero accesso all’amministrazione pubblica, potendo così aspirare ad un ruolo nelle attività diplomatiche e nella magistratura. Fino ad arrivare a quel ‘terremoto sociale’ che fu il 1968, che sconvolse gli equilibri di interi Paesi.
Verso una regolamentazione
Nel frattempo, attorno alla metà degli anni Sessanta, iniziò ad essere commercializzata la pillola anticoncezionale, la cui vendita fu vietata in Italia fino al 1971. In quello stesso anno, a Roma, il Movimento di liberazione della donna progettò un Congresso dedicato al tema dell’aborto clandestino. Da qui nacquero campagne di informazione e una raccolta firme. La lotta per far giungere in Parlamento una proposta di legge per la regolamentazione dell’aborto è stata lunga e dura, il primo a presentarne una fu Loris Fortuna (deputato socialista) nel 1973: tale proposta prevedeva la legalizzazione dell’aborto, ma fu archiviata.
Ma le lotte sociali continuarono e fu così che il 22 maggio del 1978 fu finalmente approvata la Legge 194 con cui si sanciva la legalità dell’aborto, il diritto di tutte le donne ad una maternità libera, responsabile e consapevole e la garanzia dell’assistenza medica qualora avessero deciso di non portare a termine una gravidanza. Inoltre, il testo della legge stabiliva che l’aborto «non deve essere un mezzo per il controllo delle nascite» e che l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è del tutto gratuita e a carico del Sistema Sanitario Nazionale.
L’aborto dopo la Legge 194
L’anno dopo l’approvazione della Legge 194, in Italia furono effettuati 187.752 aborti (regolari e documentati). Il record assoluto risale al 1982, anno in cui ce ne furono 234.801. Da lì, i numeri sono andati via via decrescendo. Come mai? Grazie ad una maggiore istruzione delle donne, in particolare delle ragazze: dati statistici dimostrano come ad un più alto grado d’istruzione corrisponda un minore numero di aborti. Inoltre, non bisogna trascurare l’importantissimo ruolo degli anticoncezionali (pillola e preservativo, in particolare), il cui uso ha fortemente diminuito il tasso di gravidanze indesiderate e dunque di aborti. Bisogna inoltre distinguere tra donne italiane e donne straniere, sono le seconde a ricorrere più spesso all’aborto; ma si deve anche notare che, considerando le fasce d’età, sono molte più le ragazze di età compresa tra i 15 e i 20 anni. Ciò è dovuto all’abbassamento dell’età minima in cui gli e le adolescenti si avvicinano alla sessualità.
In anni più recenti, c’è stato un vero e proprio calo di IVG, grazie anche all’introduzione della pillola del giorno dopo, un contraccettivo d’emergenza che ha portato il numero degli aborti al di sotto di quota 85mila nel 2016.
«Il risvolto negativo è che se la diffusione di un anticoncezionale di emergenza incide così tanto sul numero degli aborti significa che si fa ancora troppo poco per prevenire le gravidanze indesiderate».
La prevenzione e l’educazione sessuale sono due grandi tasti dolenti per l’Italia: sempre più giovanissimi praticano il sesso, ma sempre di meno sono coscienti e consapevoli degli eventuali rischi legati a rapporti non protetti, oltre a gravidanze indesiderate, vi sono tantissime infezioni e malattie sessualmente trasmissibili, di cui i giovani ignorano la gravità.
L’aborto in Italia, a quarant’anni dalla Legge 194
Ma a quarant’anni dall’approvazione di questa legge che sancisce un diritto di ogni donna, l’aborto è davvero garantito a chiunque voglia farvi ricorso?
In una relazione diffusa dal ministero della Salute, la ministra Lorenzin dichiarava:
“Per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore pur in presenza di casi che si discostano dalla media, non emergono particolari criticità nei servizi di Ivg. In particolare, si osserva che le IVG vengono effettuate nel 60.4% delle strutture disponibili, con una copertura adeguata, tranne che in Campania e P.A. Bolzano (dati 2016)”.
La situazione in Campania è davvero critica, a Napoli interrompere una gravidanza equivale a giocare alla roulette. E nel resto d’Italia? Le cose non sembrano andare molto meglio. I medici obiettori di coscienza sono ben il 70.9%, ciò significa che su 10 medici ben 7 sono contrari a praticare un’interruzione volontaria di gravidanza. La tendenza viene rispecchiata dalle strutture disponibili ad effettuare aborti che sono solo il 60% del totale. E non finisce qui. Sembra infatti che anche i farmacisti siano obiettori di coscienza e che molti si rifiutino di vendere la pillola del giorno dopo, nonostante essa sia per legge disponibile senza obbligo di prescrizione.
«Lo fanno senza dichiararlo apertamente perché sanno di poter essere sanzionate. La scusa più usata è dire che il farmaco è esaurito. Per verificare, gruppi di donne della rete femminista Non una di Meno che collabora con Obiezione Respinta, si sono recati periodicamente nelle farmacie che davano questo tipo di risposta e puntualmente la pillola non era mai disponibile. Abbiamo fatto delle ricerche incrociate e abbiamo scoperto in questo modo che quelle farmacie erano antiabortiste».
A rendersi conto di questo fenomeno è stato Obiezione Respinta, un’organizzazione femminista, i cui membri sono giovani donne che hanno messo su una rete a livello nazionale per monitorare l’andamento di consultori, sportelli medici e farmacie. Hanno così creato una mappa virtuale su cui vengono riportati dei simboli, ciascuno indicante un servizio diverso: consultori, farmacie, ospedali. In base al colore del simbolo, si può capire se in quel posto venga o meno esercitata l’obiezione di coscienza: rosso significa sì, verde significa no, dunque via libera per le donne. Con il viola vengono invece contrassegnati i posti a cui rivolgersi qualora ci fosse bisogno d’aiuto, come un centro antiviolenza. Con un semplice click sul simbolo si avranno maggiori informazioni sul servizio segnato sulla cartina virtuale. I dati relativi ad ogni luogo e servizio sono stati raccolti attraverso e-mail, Facebook e Twitter: le segnalazioni provengono da ogni parte della penisola italiana ed è assolutamente garantito l’anonimato.
«Obiezione Respinta cerca di offrire uno spazio digitale utile di mutuo aiuto e sostegno alle donne perché non si debbano più sentire a disagio o ghettizzate per le decisioni prese».
Ginecologi e farmacisti obiettori di coscienza; consultori insufficienti e inadeguati per venire incontro a tutte le richieste d’aiuto; pillole anticoncezionali eliminate dalla lista dei farmaci da avere obbligatoriamente in farmacia; contraccettivi a pagamento (altrove sono gratuiti); genitorialità programmata e consapevole, questa sconosciuta (all’estero sono avanti anni luce rispetto a questa tematica). L’aborto non è assolutamente un diritto garantito ad ogni donna in Italia.
Gli antiabortisti
Ma la cosa peggiore è che verso le ragazze e le donne che scelgono di non avere figli e di interrompere una gravidanza permane una sorta di stigma sociale, reso ancora più insostenibile da associazioni estremiste. Difatti, di recente, sono tornati alla carica dei movimenti antiabortisti, quali ProVita che ad aprile ha affisso un maxi cartellone in via Gregorio VII a Roma e proprio la scorsa settimana Citizen Go ha tappezzato la Capitale di manifesti recanti la scritta: “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo“. Inoltre, sempre Citizen Go ha tenuto una marcia per la vita proprio 3 giorni fa, il 19 maggio, per dire basta all’aborto e per chiedere l’abrogazione della Legge 194, che, dalla sua entrata in vigore, ha portato alla morte di sei milioni di bambini. Secondo i movimenti ProLife, chi ricorre all’aborto pratica “eugenetica” e “infanticidio con fondi pubblici”, loro accusano le donne che decidono di porre fine alla gravidanza di essere delle assassine. Il fatto è che l’utero non è né della Chiesa né dei movimenti ProLife, l’utero appartiene solo ed unicamente alla donna, solo lei perciò ha il diritto di scegliere cosa farne. Ma, oggi, nel 2018 c’è chi non la pensa affatto così, appellandosi al diritto alla vita del bambino (che bambino ancora non è, dal momento che quello nella pancia della madre è prima un embrione e poi un feto). Ma chi ci dice e garantisce che esso, bambino o feto che sia, voglia davvero nascere?
«Mi son sempre posta l’atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “Chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”».
“A chi si pone il dilemma se dare la vita o negarla”, questo è il sottotitolo di Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, monologo autobiografico pubblicato nel 1975 (3 anni prima dell’approvazione della Legge 194). In questo libro, la scrittrice e giornalista affronta questa problematica partendo da un episodio vissuto in prima persona: le domande che si pone sono numerose, ma ad ognuna cerca di dare una risposta, valutando pro e contro di ogni decisione. Vivere o non esistere affatto? Cos’è meglio? La vita, pur con le sue diffficoltà e sofferenze, o il non esserci mai stati? Chi stabilisce che una donna debba necessariamente procreare ed essere madre? Il fatto che ogni mese abbia il ciclo mestruale non implica che ogni donna senta l’istinto materno. Ma la domanda più importante di tutte è: perché le conseguenze di un rapporto sessuale ricadono solo sulla donna? Gli uomini hanno il diritto di ‘divertirsi’ per una notte e via, le donne invece no. Perché solo lei si ritrova ad affrontare la questione quanto mai delicata e spinosa del dare la vita o meno?
Questo è l’origine di tutte le disuguaglianze tra uomo e donna, questo è il ‘peccato originale’ alla base di ogni disparità.
E se tutt’oggi vi sono medici che si rifiutano di assecondare una decisione legittima e sacrosanta presa pur tra mille dubbi, incertezze e sofferenze, allora anche loro stanno commettendo una violenza ai danni di quella donna, al pari di quanti abusano di loro, anche loro stanno mettendo in dubbio la capacità di discernimento delle donne, arrogandosi un diritto che non spetta a loro, quello di decidere del proprio corpo.
Carmen Morello