Sono storie di ordinaria follia; succedono quando l’amore per i libri è sconfinato, e ti avvolge, come una calda coperta.
Oggi voglio raccontarvi una storia che parla d’amore; quell’amore vero, passionale, profondo. L’amore per il mondo, per il viaggio, e per i libri, che, ovunque vai, hanno quell’incredibile potere di farti percepire l’incredibile profumo di casa.
Se penso al fatto che ho attraversato un oceano intero, subendo l’atrocità di 14 ore di interminabile volo, (a stretto contatto con un anziano brontolone e puzzolente, per giunta!), per arrivare nella terra degli indiani d’America, ed innamorarmi follemente di Benjamin Lacombe, PA-RI-GI-NO…Ehm, si mi sento decisamente stupida.
E oltre ad essere stupida sono anche terribilmente ignorante! Mille pensieri negativi, e autodistruttivi mi affollano la mente. Come posso diventare un’aspirante scrittrice, illustratrice, blogger, respirare letteratura, cibarmi e dissetarmi di questa; come posso pretendere di aprire i miei polmoni ad un’arte latino americana, se non conosco neanche questi giovani talenti, residenti proprio dietro l’angolo di casa?
Io e Benjamin (si, lo chiamo così, ho deciso che è arrivata l’ora di passare ad un informale più intimo), ci siamo incontrati la prima volta un lunedì pomeriggio.
Era una di quelle giornate dove non avevo molto in programma, se non la mia estenuante e continua ricerca di tutti gli spazi d’arte (usina cultural), dove poter trascorrere il pomeriggio, soddisfando la mia interminabile curiosità.
Il barrio di Palermo, Soho di Buenos Aires, è decisamente il luogo adatto alle mie esigenze.
Ma passiamo ai fatti.
In mezzo a miliardi, ma proprio tonnellate di libri, sparsi sui tavolini, sugli scaffali, sui cuscinoni, mi indirizzai indisturbata subito verso il reparto “ninos”, “bambino”, dedicato ai libri illustrati, infantili e non.
Il mio attento sguardo scrutatore cadde subito su un libro. Maledettamente ancora incelofanato. “Ruisenor”, questo il titolo, di Benjamin Lacombe e Sebastian Perez.
Data la mia vergognosa ignoranza, non conoscevo nessuno dei due, e il fatto che il nome dello scrittore fosse elencato per ultimo, mi faceva addirittura dubitare su chi fosse l’illustratore. Ma inutile dirlo, la vergogna era troppa per proferire parola a chi di dovuto.
Fu così che non chiesi spiegazioni, ma tentai maldestramente di strappare accidentalmente il nylon, per poterlo vedere anche solo un poco, all’interno. Sfortunatamente i miei superpoteri da wonder woman-azione-invisibilità non funzionano molto bene, e dovetti abbandonare il bottino poco dopo, e lasciare la libreria terribilmente delusa, sconfitta, amareggiata.
Ma non mi diedi per vinta, non passò molto tempo, quando decisi di visitare l’ultima “usina cultural” presente nel barrio: “Eterna Cadencia”.
Superfluo dirlo, il nome già mi ispirava.
All’interno si respirava un’atmosfera antica, tipica di quelle biblioteche dei film anni cinquanta, piene di scaffali stretti e altissimi, a sfiorare un soffitto, in pieno stile gotico. Libri sparsi ovunque. Ripiani pieni di volumi ingialliti, di ogni dimensione, formato, carattere, colore.
Sembrava quasi che ci fosse un libro per tutti, li dentro.
Ognuno poteva trovare quello che cercava.
E anche chi non aveva una meta precisa, l’avrebbe di certo scovata.
Quel luogo immenso, carico di fascino e di mistero, avrebbe offerto a chiunque una ragione per ritrovarsi lì.
Mossa dalla mia insaziabile curiosità, il mio movente, lo trovai non appena varcai quella soglia; annebbiata da un intenso odore di antico, misto a quella famigliare sensazione di ritrovarsi finalmente a casa.
Bastarono pochi minuti, e già mi ritrovavo accerchiata da ogni qualcosa avesse catturato in qualche modo la mia insaziabile curiosità.
In primo luogo tenevo sotto mano due grandi nomi: Marjorie Pourchet e Benjamin Lacombe.
Entrambi mi suggerivano immagini già viste, entrambi rimandavano alla mente qualcosa di famigliare, di conosciuto, studiato. Qualcosa di amato.
Tenevo tra le mani un bellissimo libro, “A mi lado” di Marjorie Pourchet, che racconta attraverso immagini evocative e simboliche la storia di una bambina, che decide finalmente di vedere il mondo con i suoi occhi, come lei decide di viverlo, con le sue forme e i suoi colori.
Tutta questa magia è rappresentata dall’illustratrice con un leggero tocco di grafite, e un abile chiaro scuro ,e, almeno nelle prime pagine, ci riserva un paesaggio quasi del tutto monocromo. Personaggi con corpi sgraziati, sproporzionati, quasi burleschi, ci vengono incontro, presentandoci questa realtà, raccontata attraverso gli occhi di una bambina speciale. Basta poco per accorgersi che l’intento dell’illustratrice è proprio quello di focalizzare l’attenzione sui sentimenti, della gente, dei passanti, e della bimba, io narrante. Tale intento trapela, viene al di fuori della superficie cartacea, e ci emoziona.
Questi dettagli mi rimandano alla mente le immagini di Joanna Concejio, con i suoi tratti di grafite carichi di mistero e simbolismo, che vanno sempre a celare un sentimento nascosto. Ma intenso. Profondo.
La bambina all’interno della storia compie un viaggio interiore, decidendo di afferrare le redini della sua vita con le proprie mani, ed è proprio da quel momento che il mondo smette di essere immobile e grigio, ma incomincia a colorarsi, tondeggiarsi, caricandosi di allegria ed emozione. L’emozione di una bambina che apre gli occhi verso il mondo, per la prima volta.
Mi trovavo dall’altra parte del mondo, con un solo obiettivo in testa: emozionarmi.
Mi trovavo dall’altra parte del mondo, ed ero sola, abbandonata, respiravo cemento, percorrendo strade che non mi appartenevano, incrociando persone che non mi vedevano.
Ed improvvisamente eccomi qui; in una libreria dall’altra parte del mondo, a sorridere alla gente che mi stava attorno con il cuore colmo di gioia e nuova speranza. Felice, come solo una bambina, che ha finalmente ripreso in mano le redini della sua vita, sa essere.
Buenos Aires, il mondo continua; io ci sono, e voglio vivere respirando parole ed immagini.