E dopo che “Il Verbo si è fatto carne”, per mano dello scultore canadese Timothy P. Schmalz, quella Verità si è fatta bronzo, una statua di bronzo. Un Gesù steso su una panchina, avvolto interamente da una coperta e con i piedi scoperti, sui quali appaiono chiari i segni della crocifissione. Un Gesù senzatetto, senza casa, senza un posto in cui tornare quando cala il buio, senza qualcuno che provveda a preparargli la cena: un Gesù che riflette l’immagine, la solitudine e lo stato di abbandono di tante Persone. Un Gesù che, dormendo su una panchina, è distante da ogni forma di avarizia; un Gesù che, avvolto in una leggera coperta, si distingue da chi si adorna di lussuosi indumenti; un Gesù che, lasciando scoperti i suoi piedi sui quali si è accanita una spietata brutalità, non ha concesso spazio a dubbi: è Lui. Povero. Solo.
E più guardo la foto che ritrae quella statua, più lo riconosco. È il Gesù a cui, tanti, tante, da sempre fanno riferimento: semplice, nato per vivere dell’essenziale, artista, poeta di strada, di cielo e di vita. E me lo immagino sollevarsi da quella panchina e correre verso bambini e bambine a cui poco importa della sabbia che Gli è rimasta nelle unghie mentre sopra ci scriveva l’inizio di una nuova vita di una Donna a cui nessuno avrebbe concesso un solo altro respiro.
Non mi è difficile immaginare quel Gesù che, sollevatosi da quella panchina e percorrendo strade, visitando posti che se non fosse stato per Lui, neanche esisterebbero, si chiede cosa ne è stato del Suo sogno, del Suo insegnamento e del Suo amore per tutto ciò che è amore: quello che per splendere, non ha bisogno di oro né di denaro né di alcuna forma di ricchezza e che per accogliere, non necessita di spazi e luoghi immensamente grandi e al contempo immensamente indegni di esserGli attribuiti.
Lo immagino sollevarsi da quella durezza e correre verso chi di durezza ha rivestito il suo cuore: per paura di vederlo ancora ferito e spezzato; lo vedo correre verso chi la durezza la conosce bene mentre non sa neanche cosa sia la morbidezza, quella di un cuscino, quella del pane appena sfornato, quella di una mano che non ha timore né vergogna di accarezzare volti che nessuno guarda, che nessuno ricorda; lo vedo correre verso chi non ha smesso di correre, lo vedo rincorrere e lo vedo aspettare chi preferisce procedere per giri immensi per giungere a destinazione, perché ha imparato che le scorciatoie non concedono il tempo che basta per godersi il sole di una giornata di aprile.
Lo vedo sollevarsi da quella panchina, per fare spazio, per lasciare il posto a chi un posto non ce l’ha e a chi, pur avendolo, lo trova sempre occupato dagli amanti delle scorciatoie.
Una statua di un Gesù senzatetto, nel giardino di Sant’Egidio, in Vaticano, davanti alla porta degli Uffici dell’Elemosineria Apostolica… molto probabilmente, per ricordare che quel Gesù preferiva, preferisce i giardini ai palazzi e per ricordare che, bello, spettacolare quanto mai sia il tetto di una chiesa, di una casa, questo non arriverà mai alla bellezza e alla poesia che il cielo, da sempre, racchiude e racconta.
E questo, quel Gesù modellato sul bronzo, lo sapeva. E lo sa.
Deborah Biasco