785 milioni per esternalizzare il controllo dei confini

controllo dei confini

Di Giulio Cavalli


Cambiano i governi, esplodono le crisi, ci si arrotola sul prossimo salvatore della patria che poi non ne uscirà mai salva ma da quattro anni continuano imperterriti gli accordi tra Italia e Libia, quel patto definito “disumano” dall’Alto commissario delle Nazioni unite che, come scrive l’Onu già nel 2017, “è un oltraggio alla coscienza dell’umanità” per le “migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bambini ammassati gli uni sugli altri, rinchiusi dentro capannoni senza la possibilità di accedere ai servizi basilari”. Lo firmò Gentiloni nell’estate del 2017, sopravvisse con il governo giallo-verde del primo Conte, non è stato minimamente messo in discussione nemmeno nel Conte bis (con il centrosinistra che aveva promesso un cambio di passo che non è mai arrivato) e non è difficile pensare che possa continuare tranquillamente a perseverare in occasione del prossimo governo che verrà.

Eppure quel patto è la fotografia perfetta del fallimento della politica italiana ed europea che di fronte ai flussi migratori è capace solamente di bloccare gli arrivi in tutti i modi possibili, legali e illegali, fottendosene delle persone e dei diritti e spendendo soldi pubblici. Un mare di soldi pubblici: dalla firma dell’accordo l’Italia, per esternalizzare il controllo dei confini, ha speso 785 milioni di euro assegnando alla Libia il compito di bloccare i flussi migratori per finanziare le missioni navali italiane ed europee. 785 milioni di euro: uno si aspetterebbe che se non funziona l’indignazione in difesa delle vite umane almeno si possa fare leva sulla cifra mostruosa che costa tutto questo orrore anche perché una buona fetta di questi soldi (più di 210 milioni di euro) sono finiti direttamente alla Libia e hanno contribuito a destabilizzare ancora di più un Paese devastato dalla guerra tra bande convincendo i trafficanti di persone (quelli che a parole qui in Italia tutti vogliono combattere) a convertire il loro business nei centri di detenzione che sono vere e proprie prigioni dove la violenza e la brutalità sono all’ordine del giorno.

E mentre le istituzioni internazionali ed europee, comprese la Nazioni Unite e la stessa Commissione europea, riconoscono da tempo che la Libia non possa essere considerata un porto sicuro poiché non vengono garantiti i diritti fondamentali e poiché i migranti e i rifugiati sono sistematicamente esposti al rischi di sfruttamento, di violenza, di tortura e altre gravi (e documentate) violazioni dei diritti umani l’Italia continua a foraggiare la Guardia Costiera libica che negli ultimi 4 anni ha riportato nelle sue carceri almeno 50mila persone di cui 12mila solo nel 2020.
Per questo ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch ancora una volta hanno lanciato un appello urgente al Parlamento “per un’immediata revoca degli accordi bilaterali e il ripristino di attività istituzionali di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale”. Tutto questo a pochi giorni dall’esposto sull’associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione alla Corte dei conti con cui si chiede l’avvio di un’indagine sull’uso dei fondi pubblici nei centri di detenzione in Libia. Nei centri di detenzione ufficiali sono detenuti arbitrariamente circa 2.000/2.500 persone ma non si ha nessuna certezza sulle migliaia di persone che sono detenute in luoghi di prigionia clandestini che sfuggono ai controlli delle Nazioni Unite e delle altre agenzie umanitarie e dove le condizioni di vita sono sicuramente peggiori.
Le associazioni che hanno sottoscritto l’appello sottolineano anche come dal 2017 siano stati spesi dall’Italia 540 milioni di euro per finanziare missioni navali nel Mediterraneo che non avevano lo scopo di soccorrere le persone. Nello stesso periodo, lo dicono i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), quasi 6.500 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa nel Mediterraneo centrale. E anche l’anno scorso, con il governo che prometteva il “cambio di passo” l’Italia ha bloccato 6 navi umanitarie con fermi amministrativi pretestuosi: sono cambiati i toni e i modi ma l’atteggiamento criminale è sempre lo stesso. Nel 2020 si parla di 780 morti e 12.000 persone respinte. E cosa sono queste “missioni navali”? Facile, si tratta delle operazioni di monitoraggio aereo di Frontex, EUNAVFORMED Sophia e, ora, Irini, che di fatto contribuiscono spesso alla facilitazione dei respingimenti verso la Libia. Nell’appello le associazioni chiedono di interrompere l’accordo Italia-Libia, chiedono la chiusura dei centri di detenzione nel paese nord-africano, di promuovere l’approvazione di un piano di evacuazione dalla Libia delle persone più vulnerabili e a rischio, di dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con compiti di ricerca e salvataggio, di promuovere in sede europea l’approvazione di un meccanismo automatico per lo sbarco immediato, di promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libica e di riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia delle vite umane in mare.

Ecco un punto fondamentale da discutere nella formazione di un nuovo governo. Ecco quello che ci si aspetterebbe da un Paese che continua a essere alleato della criminalità libica. Ma vedrete che di questo non si parlerà, ancora una volta. Niente.

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