L’altro giorno, il 10 marzo (1946), è stata una giornata particolare. I titoli dei giornali parlavano del Suffragio universale. La mamma dice che si è trattato di una giornata storica, di cui sicuramente racconteranno i futuri libri di storia. E queste parole della mamma, mi hanno entusiasmata. Ci ho pensato tanto e mi sono chiesta se in quei libri, in cui si parlerà del 10 marzo di questo 1946, verrà precisata la trepidazione con cui io, semplice ragazza italiana, ho vissuto il mio risveglio e tutte le fasi della preparazione, per un’uscita speciale: per andare a votare. Sono una giovane donna e tutto ciò che di nuovo vivo, è motivo di euforia e curiosità. E quello che sto per raccontare, probabilmente, rischierebbe di essere sminuito se fosse scritto in prima persona.
Sono una donna: ed è già tanto che mi si legga, figuriamoci pensare alla possibilità che la mia esperienza divenga fonte storica! Per questo, il racconto di quella giornata, non sarà solo il mio. Anche perché, non ero sola: c’era mia madre con me. Mia madre, oh… lei! Non dimenticherò mai la fierezza del suo sguardo mentre si preparava davanti allo specchio.Le mie orecchie ricorderanno per sempre il suono e il ritmo sicuri dei suoi passi che hanno accompagnato i miei verso la sede elettorale. E sempre celebrerò come esempio l’orgoglio con cui ha ceduto il suo documento di identità all’uomo che le ha fatto cenno di avvicinarsi, per poi consegnarle la sua scheda.
La sua prima scheda, la sua prima volta all’interno di quella cabina vuota di tutto ciò di cui noi, “l’altra metà del cielo” , siamo capaci: vuota, prima di quella mattina, di Storia che dovrebbe significare Progresso, Sviluppo e Consapevolezza.
Subito dopo mia madre, fu chiesto a me di avanzare e di compiere le sue stesse azioni. E quando mi ritrovai in quella cabina, chiusa con una pesante tenda, non potei non pensare. E vidi rincorrersi su quel pezzo di compensato i volti e i corpi delle Donne di cui mia madre mi aveva parlato tante volte: assistetti alle loro battaglie, scesi con loro nelle piazze della protesta, della ribellione, della dignità, e piansi le loro lacrime. Lacrime di rabbia e di amarezza, lacrime soffocate da secoli di oppressione, lacrime sporcate da mani che si affrettavano ad asciugarle per non renderle visibili. Non so dire quanto tempo trascorsi lì dentro, ma posso e voglio dichiarare che non ero sola: nessuno lo è, se e quando compie un’azione che deve a chi lo ha preceduto e che gliel’ha permesso. E con me, in quella cabina, la mattina del 10 marzo 1946, sono entrate tutte le Donne che hanno stretto i pugni e i denti e il cui stridore dovrà fischiare per sempre nell’orecchio di chi lo ha provocato e di chi non lo ha impedito.
C’erano le Donne di cui si è sempre occultata l’esistenza, la storia, i sogni e la volontà: Donne che non hanno parlato, non hanno cantato, non hanno scritto, non hanno amato perché a chi godeva del diritto di possederle, il loro sentimento non importava; Donne che non sono andate, Donne che non sono tornate, Donne che non si sono conosciute e che non si sono amate. E Donne che hanno custodito il sogno di indossare un paio di pantaloni che le rendesse uguali ai loro padri, ai loro fratelli, ai loro zii, ai loro mariti e ai loro figli. Erano tutte con me, in quella cabina che loro non avevano potuto vedere. E ci sono entrate attraverso me, attraverso la mia consapevolezza di essere stata, semplicemente, più fortunata di loro, e attraverso la mia certezza di dover a loro e a tutte le Altre, il diritto che mi era stato concesso. Leggevo nei loro occhi l’emozione che provavano nel vedere me, con una scheda ed una matita in mano, e scorgevo, tra i lineamenti del loro volto, la malinconia per quello che loro non avevano vissuto. Ma quello che non dimenticherò mai e che spero i libri di storia di ogni epoca riporteranno, è la fermezza del loro sguardo, l’equilibrio su cui poggiavano i loro pensieri e la sicurezza che il loro corpo sprigionava da ogni parte: la sicurezza di aver scritto, pur senza fogli né penne, pagine di Storia di una fondamentale importanza.
Ed io, che forse non avevo colto sul serio la grandezza di quel giorno, compresi che i frutti che un albero concede al gusto di chi ne gode, sono sempre il risultato del lavoro, della fatica e della perseveranza delle radici che non hanno ceduto, nonostante le stagioni e nonostante tutte le difficoltà che l’essere sulla terra, comporta.
Votai. Espressi la mia volontà. Pronunciai la mia modesta, semplice opinione. La mia idea era diventata parola. Il mio pensiero era stato messo per iscritto. Ero una mente che pensa, una voce che parla, una mano che scrive, una Donna che sceglie. Che può farlo. E ho pianto. Prima di farmi largo tra quella pesante e grigia stoffa, ho pianto. Ho pianto per l’emozione che provavo e ho pianto per le Donne che non l’hanno vissuta. Ho pianto per le Donne nate, vissute e morte convinte di non essere all’altezza; per tutte le Donne che non hanno avuto il coraggio e per quelle a cui l’ala del coraggio è stata tagliata ancor prima di aprirsi in volo; ho pianto per le Donne che nessuno ha ascoltato, che nessuno ha sostento, che nessuno ha incoraggiato. Ho pianto per le Donne che non hanno potuto piangere e per quelle che hanno pianto troppo. Ho pianto per quella “metà del cielo” oscurata da eclissi interminabili e di cui sono state spente le stelle. Per anni. Per secoli. Per tanto tempo, troppo.
E quando, finalmente, uscii dalla cabina e vidi mia madre, col petto gonfio di orgoglio, ad aspettarmi sulla porta, ho capito che quando si nasce Donne, la vita possiede il doppio dello spessore, del peso e della fatica. E nessuno può contraddirmi in questo.
Ma ho anche capito che nascere Donna corrisponde ad un doppio regalo, ad una doppia fortuna, ad un doppio esistere: sì, perché le Donne, a motivo della Storia che hanno scritto e a cui daranno un seguito, vivono di più, in termini di potenza, di intensità, di profondità, di forza.
E per tutto questo, la sera del 10 marzo, quando mi misi a letto, stringendo tra le mani il mio diario, ormai quasi pieno di vita vissuta, altre parole non sussurrai, se non: “Meno male che son nata Donna.”
Le sussurrai piano ma credo che siano comunque giunte a quell’altra metà del cielo, che non smetterò mai di ammirare. E di ringraziare.