Daniele Coluccini e Matteo Botrugno hanno dovuto attendere 9 anni per arrivare a realizzare il loro secondo film: Il Contagio.
Presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno, il film nato da questa lunga gestazione prende spunto dal romanzo omonimo di Walter Siti e dal testo teatrale che ne è scaturito, con sapienti aggiornamenti alla realtà attuale.
La storia nasce in una borgata il cui palazzo principale, dove vivono i protagonisti, è di per sé un’esplosione di simbolismo: un Colosseo dell’EUR in miniatura dove la storia prende vita e veniamo introdotti alla prima metà del film.
I colori all’inizio sono volutamente caldi, dilatanti il senso dell’abbraccio, dell’intimo, della sensualità pronta ad esplodere.
Molte storie s’intrecciano in questa casa: la donna delle pulizie siciliana con un figlio tossico e parassita; una donna napoletana (Lucianna DeFalco) con un marito violento; una nuova arrivata nel condominio (Flonja Kodheli) appena uscita di prigione che cerca il figlio dato in affidamento; due coppie di amici: Marcello (Vinicio Marchioni) e Chiara (Anna Foglietta), Mauro (Maurizio Tesei) e Simona (Giulia Bevilacqua).
Sono proprio quest’ultimi che prendono il sopravvento rispetto agli altri personaggi.
Marcello è un uomo gioviale, infantile, giocoso, duro senza mai prendersi sul serio, tenero e debole. Il suo rapporto con Chiara è incrinato sotto il peso del tempo, per le sue abitudini di cocainomane, la sua mancanza di responsabilità e le sue frequentazioni.
Chiara ha sofferto tanto in passato e i sintomi la portano ad allucinazioni rovinose e crisi intense che tenta di nascondere non riuscendo fino in fondo.
Come se non bastasse, Marcello si mette nei guai con un boss locale che lo rifornisce di cocaina e per finanziare questa passione si concede allo scrittore Walter (un Vincenzo Salemme superlativo che lavora di toni sfumatissimi).
Ad aggravare la situazione è l’ambizione di Mauro, che lavora per il boss locale e tenta la scalata sociale dimenticando completamente la borgata e gli affetti che lì ha lasciato.
La fine è tragica.
Queste parole non riassumono Il Contagio nella sua complessità innanzitutto perché non si parla di un thriller né di un dramma sociale, semmai di un melodramma.
Il film è fatto di tanti strati che si susseguono e si richiamano, si sostituiscono in una sequenza cangiante di toni dove ogni sfumatura del degrado personale o ambientale è colta nel dettaglio ma sempre con un richiamo all’insieme.
La fotografia è semplice e funzionale, proprio come la scelta dei colori caldi nella prima parte e i freddi nella seconda dove si vede la deriva borghese del trucido Mauro.
I giochi di sfumature stanno nella forma quanto poi nel contenuto: nei rapporti dei protagonisti l’unica chiave di lettura è l’ambiguità. I due registi sono padroni totali delle sfumature e lo si capisce pure dall’uso della simbologia e delle caratterizzazioni, di uno slow motion sacrale, liturgico.
Marchioni è splendido, giocoso nella prima parte come intenso nella seconda con un trasporto animalesco e ben si comprende l’amalgama, l’attrazione che scatena nel personaggio riflessivo, pacato, votato alla quiete contemplativa del personaggio di Salemme.
Le loro scene sono tra le più belle del film e quella dei preliminari sanciti dalla coca è di un calore sensuale magistrale. Francesco Alò di Badtaste.it , che ha un occhio sopraffino, ha fatto il nome del San Sebastiano di Rubens per descrivere lo charme di Marcello, ma si potrebbero anche richiamare i personaggi maschili de Il ratto delle figlie di Leucippo.
Tesei, cui è riservata maggior parte della seconda metà del film, è grande per la naturalezza chiara, potente dell’espressione.
Per non parlare della Foglietta cui la sceneggiatura regala momenti intensissimi in cui scaricare una febbrile, elettrica energia con cui variare in toni, sentimenti ed espressioni. Il corpo è dritto al punto, essenziale, di una limpidezza che nel monologo soprattutto, appunto perché sfogo del personaggio, lascia senza parole.
Un film come questo è grande non solo per la regia semplice, diretta, essenziale ed iperralistica ma anche per l’atmosfera, le musiche scelte come espressione dei pensieri, i corpi scelti nel modo migliore, omaggiando e trasformando al contempo lo stile spezzato del romanzo.
Non indugia nella propaganda politica nemmeno quando mostra lo squallore degli affari dei suoi parvenus.
Ognuno potrà trovare qualcosa di suo ne Il Contagio e rigirarlo come si vuole, analizzarlo negli anfratti dei gesti e delle scene.
Come era giusto che fosse, sta dividendo la critica ed il pubblico. Ed è bene così.
Antonio Canzoniere