Secondo una recente ricerca pubblicata sul Journal of the American Medical Association Internal Medicine (JAMA Network), circa 65mila donne rimaste incinte a seguito di uno stupro non hanno potuto abortire a causa della decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2022 che ha ribaltato la Roe vs Wade, annullando il diritto all’aborto in vigore dal 1973. Da quel giorno, 14 Stati hanno vietato l’aborto a qualsiasi durata della gestazione.
Negli Stati Uniti oltre 65mila donne vittime di stupro non hanno potuto abortire – In particolare, nei 14 Stati che hanno implementato il divieto totale di aborto, i ricercatori hanno stimato che su 519.981 stupri ci sono state 64.565 gravidanze durante i 4-18 mesi in cui il divieto era in vigore. Circa 26 mila di queste si sono verificate solo in Texas. Lo studio rivela inoltre che solo poche, se non nessuna, hanno ottenuto aborti legali all’interno del proprio Stato, suggerendo che quelle poche eccezioni per l’accesso all’aborto in caso di stupro non sono sufficienti o troppo restrittive. Non a caso, molte sopravvissute rimaste incinte in uno Stato in cui l’aborto è vietato si sono viste costrette a viaggiare in altri Stati in cui è ancora legale, molte altre però sono state lasciate senza una reale alternativa pratica al portare a termine la gravidanza.
Lo studio ha coinvolto esperti di Planned Parenthood, Resound Research for Reproductive Health e varie istituzioni accademiche in tutto il Paese. Per realizzarlo, i ricercatori hanno utilizzato i dati del CDC, i dati nazionali più accurati disponibili sugli stupri per stimare l’impatto dei divieti sull’aborto, ma sottolineando che le stime sono comunque limitate, poiché esperienze così altamente stigmatizzate sono difficili da misurare accuratamente nei sondaggi. Tuttavia, ciò che emerge chiaramente dal gran numero di gravidanze legate allo stupro stimate negli stati in cui è vietato l’aborto, rispetto ai 10 ( o anche meno) aborti legali al mese in questi stessi stati, è preoccupante, poiché suggerisce un’evidente incapacità delle vittime di accedere ai servizi per l’aborto anche negli Stati in cui teoricamente la legge consente eccezioni per lo stupro.
La sentenza Roe vs Wade del 1973 era considerata una pietra miliare giuridica in tema di aborto e diritti riproduttivi negli Stati Uniti. Il suo ribaltamento nel 2022 ha fatto emergere una serie di preoccupazioni circa l’accessibilità all’aborto per le donne e le relative (e inevitabili) conseguenze sociali ed economiche.
“Gli stati dove non è possibile accedere ai servizi di aborto offrono una realtà tetra alle persone che possono restare incinte. Quelli dove non c’è accesso all’aborto sono gli stessi in cui sono a disposizione minori sostegni alla maternità, in cui i tassi di mortalità materna sono i più elevati e lo stesso vale per i tassi di povertà infantile. Mentre i gruppi contro i diritti umani provano ancora a criminalizzare l’aborto attraverso ulteriori divieti, meccanismi premiali per chi denuncia le persone che cercano di abortire, impedimenti alle cure abortive e limitazioni alle informazioni sull’aborto”, ha sottolineato Tarah Demant, direttrice dei programmi Amnesty International USA.
Il diritto all’aborto in Europa e in Italia
Secondo una ricerca di Openpolis, il diritto all’aborto, nonostante sia formalmente riconosciuto e garantito in tutti i Paesi membri europei, è ancora soggetto a numerosi ostacoli e barriere. Il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade negli Stati Uniti ha riacceso il dibattito anche nel vecchio continente, tanto che il Parlamento Ue ha adottato una risoluzione per spingere tutti gli stati membri ad includere tale diritto tra quelli fondamentali dell’European Charter of Fundamental Rights.
Una mossa che per quanto progressista, rimane limitata alla necessità di un’approvazione unanime di tutti gli stati, compresi quelli con leggi più restrittive come Malta, che non riconosce il diritto all’aborto se non in casi estremi, cioè quando la vita della madre è a rischio, e Polonia, dove le ultime tendenze regressive sul tema hanno portato a poter richiedere un’interruzione di gravidanza solo in caso di pericolo di vita della madre o in caso di violenza.
In Italia, la legge permette alle donne di interrompere una gravidanza senza restrizioni legate alle motivazioni, purché la richiesta avvenga entro i primi 90 giorni di gestazione. Nonostante questa apparente apertura, Openpolis rivela una serie di ostacoli significativi nel percorso che le donne italiane devono affrontare per intraprendere un’interruzione di gravidanza. Obblighi come il counseling e il periodo di attesa, attualmente previsti dalla normativa, vengono comunque considerati lesivi, poiché ostacolano il diritto decisionale delle donne rallentando inutilmente le procedure.
Un ulteriore elemento critico riguarda l’elevata percentuale di medici o operatori sanitari obiettori di coscienza. Secondo gli ultimi aggiornamenti (2020), si tratterebbe di oltre la metà dei ginecologi (64,6%), quasi la metà degli anestesisti (44,6%) e oltre un terzo del personale non medico (36,2%).
In Italia la legge che tutela il diritto all’aborto è la 194 del 1978 ed è una di quelle leggi che ha cambiato profondamente la sanità italiana, oltre che la società. Da quando è stata adottata, infatti, gli aborti sono diminuiti di oltre il 71%, passando da 234 mila casi nel 1983 ai 66 mila nel 2020, tanto che l’Istituto Superiore di Sanità ha affermato che “si tratta di uno tra i più brillanti interventi di prevenzione di salute pubblica realizzati in Italia”.
La tutela di questo diritto è fondamentale per prevenire decessi, disabilità e notevoli difficoltà economiche per le persone cui è stata negata l’assistenza, per i loro figli e per le loro famiglie, oltre per l’impatto che avrebbe la sua negazione sull’economia in generale.
Difendere il diritto all’aborto
In un contesto sia nazionale che internazionale, in cui il diritto all’aborto continua ad essere messo in discussione, risulta necessario riaffermare questo diritto nel quadro dei diritti fondamentali dell’essere umano, come il diritto alla salute, il diritto a non subire discriminazioni di genere e il diritto a essere liberi da violenze, torture e trattamenti inumani. Tale connessione è basata sulla consapevolezza che imporre una gravidanza non desiderata o praticare l’aborto in condizioni non sicure costituisca una minaccia concreta per la salute e, in alcuni casi, anche per la vita delle donne, esattamente come affermato dall’OMS.
Non è un caso che la Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo nel 1994 (International Conference on Population and Development, United Nations Population Fund) abbia affermato in modo chiaro e inequivocabile il diritto delle persone a decidere liberamente e responsabilmente, senza discriminazioni, coercizioni o violenze, il numero, la frequenza e il momento in cui avere figli, nonché il diritto di essere informati e di disporre degli strumenti che garantiscano questo diritto.
La serietà nell’affrontare questi argomenti risulta particolarmente necessaria quando si assiste e si considera con consapevolezza la gravità delle violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali appena descritte sia negli Stati Uniti che in Europa. Gli attacchi che singoli Stati o governi rivolgono ai diritti delle donne mostrano come ideologie retrograde possano, molto spesso, risultare pericolose anche in tutte quelle realtà dove tali diritti dovrebbero essere garantiti.
Anche nel nostro Paese si assiste purtroppo spesso a continui tentativi di screditare la validità di tali diritti, come nel recente caso del convegno organizzato dalla Lega alla Camera dei Deputati, che ha sollevato interrogativi e perplessità sul diritto all’aborto. I relatori hanno espresso posizioni decise contro la 194, definendola “non necessariamente morale” e che “concede più di quello che dichiara”, che secondo loro viola i diritti del padre e degrada il ruolo materno e pertanto vanno ristrette le possibilità di procedere con tale pratica, invece che estese. Hanno negato la legittimità dell’aborto anche nei casi di violenza sessuale, poiché non si tratterebbe di un dilemma morale, dove non c’è nessun vincitore, ma di un caso impari in cui il feto perde e la madre “guadagna”. E questo “in termini puramente logici”.
I relatori, dichiaratamente anti-abortisti, hanno così negato la libertà e l’autodeterminazione delle donne sul loro corpo e sulla loro vita, sostenendo una visione retrograda e oscurantista della società.
Questo gravissimo evento si inserisce in un contesto più ampio di retorica di destra sempre più antiabortista, che ha anche prodotto misure politiche di un impatto significativo, come la proposta di legge per rendere reato universale la maternità surrogata.
Altrettanto preoccupanti sono il proliferare di gruppi e associazioni apertamente anti-abortiste, come ProVita e Famiglia, tra le promotrici dell’iniziativa che vorrebbe modificare la 194 per costringere le donne a vedere le immagini del feto e far sentire il battito cardiaco prima di procedere con l’interruzione di gravidanza.
Si tratta degli ennesimi attacchi ai diritti delle donne, che si manifestano anche attraverso tagli ai fondi per la prevenzione della violenza contro le donne, l’assenza di leggi antidiscriminatorie per la comunità LGBTQIA+ e restrizioni degli spazi di protesta. La società si trova così di fronte a un bivio, dove il rispetto dei diritti acquisiti è continuamente messo a dura prova.