A 50 anni dai moti di Stonewall: è ancora tempo di Pride!

Era il 28 giugno del 1969 quando alcuni poliziotti fecero irruzione nello Stonewall inn, un locale del Greenwich Village di New York famoso per essere uno dei punti di ritrovo della comunità omosessuale. Da quella reazione nacque il Pride.

Un controllo come tanti, anche se il proprietario – la famiglia mafiosa dei Genovese – pagava tangenti alla polizia, che vide per la prima la reazione degli uomini e delle donne presenti. Una data simbolo per quella che oggi è chiamata comunità Lgbtq e che, a partire da quel giorno, rivendicò i propri diritti e il desiderio di essere accettata. Per questo, 50 anni dopo, siamo ancora qui a festeggiare il Pride.

LGBTQ è un acronimo inglese che sta per “lesbian, gay, bisexual, transgender, queer or questioning” – lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer o questioning. I primi non si riconoscono nel binarismo eterosessuale, mentre i secondi sono coloro che non hanno un sesso definito. Tutti a New York sapevano che lo Stonewall era l’unico locale in cui le persone gay potevano essere loro stessi. Nei restanti locali chi veniva locali sorpreso a danzare con un partner dello stesso sesso veniva arrestato. Nulla di scandaloso, perché l’omosessualità veniva definita una malattia mentale.

Si fa partire tutto da quella sera, dallo Stonewall inn, anche se negli anni precedenti si erano mosse, con la stessa consapevolezza, le comunità di Philadelphia, San Francisco e Los Angeles. Ma nelle rivolte del 28 giugno venne utilizzato per la prima volta il termine gay nelle rivendicazioni delle persone omosessuali che non chiedevano più solo di “essere lasciati in pace”, ma rivendicavano eguali diritti.




Il Pride ha ancora senso?

Come ogni anno, molte persone si chiedono se abbia ancora senso l’organizzazione di parate come i Pride, soprattutto in quei paesi dove sono stati riconosciuti pari diritti e tutele a tutte le persone, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Si sentono frasi come “è solo una carnevalata”, “facciamo anche l’etero Pride”, “avete tutto”. Inoltre il disappunto è aumentato quando il Pride è stato associato ad importanti sponsorizzazioni commerciali.

L’unica premessa necessaria è la traduzione della parola “Pride” e non “Gay Pride“, sebbene questa seconda formula sia di gran lunga più usata. Non è una manifestazione organizzata solo per i diritti delle persone gay, ma anche delle persone lesbiche, bisessuali, transessuali e intersessuali, e di ogni soggettività con un orientamento sessuale considerato non conforme.

E la parola Pride si traduce in Orgoglio, di essere diversi ma di avere gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. Un diritto non è mai conquistato per sempre e con la legge si può arrivare fino ad un centro punto. Ma il Pride conta perchè resta molto lavoro da fare. Le libertà per cui si batte a comunità LGBTQ non riguardano solamente i diritti e le libertà legislative, ma soprattutto le libertà sociali e culturali, che sono le più difficili da conquistare.

Per esempio, in Italia oggi le persone omosessuali si possono unire civilmente con diritti pari a quelli del matrimonio, ma non si chiama matrimonio e non permette le adozioni, né tanto meno è stata approvata una legge contro l’omofobia. Dall’altro lato, tuttavia, l’espressione sessuale delle persone cosiddette non conformi è ancora molto attaccata dalla società e visto come qualcosa di innaturale.

E poi, non si scende in piazza solo per noi stessi: in molte parti del mondo le persone LGBTQ sono punite, torturate e allontanate dalle loro comunità. In 70 paesi essere omosessuali rappresenta ancora un reato. Se in molte parti del mondo i Pride sono occasioni gioiose, piene di divertimento e allegria, in altre non c’è niente da festeggiare: sono soprattutto manifestazioni militanti e rivendicative perché ci sono persone che combattono per la loro sopravvivenza e incolumità.

Il Pride può funzionare come una leva per ottenere visibilità e influenza dove i pari diritti non ci sono, e per il riconoscimento sociale dove i diritti sono previsti. Una celebrazione annuale non risolve le cose, ma è un’occasione di motivazione. Quando non ci sarà più bisogno del Pride, diventando una semplice manifestazione in ricordo di quel lontano 28 giugno 1969, si potrà dire che la comunità LGBTQ avrà conquistato le libertà che appartengono a qualsiasi altro essere umano.

Serena Fenni

 

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