Lobotomia, quando la medicina uccide la personalità

Un uomo armato di un punteruolo, non può che fare danni.

E’ sufficiente una rapida ricerca su google per realizzare quante belle cose riesce a fare l’essere umano con un semplice punteruolo alla mano; uccisioni, rapine, massacri.

Ma non è tutto. Di fatto un semplice punteruolo, negli anni 20 e 30 del Novecento, era lo strumento utilizzato per praticare un particolare intervento neurochirurgico, consistente nell’interruzione delle fibre nervose, che collegano il talamo col cervello frontale: la lobotomia.

La lobotomia è stato considerato per molti anni l’unico rimedio volto a risolvere i disturbi mentali, il miracolo della psicochirurgia. Efficace quanto rapido, il metodo veniva studiato già nell’Ottocento. Efficace, e non troppo distante dall’omicidio, era il processo della lobotomia; non c’è dubbio che amputando una gamba ad uno zoppo, questo smetterà di zoppicare.

Il disturbo mentale può essere definito come il processo che colpisce il paziente, alterando la conoscenza della realtà, la sfera affettiva, i comportamenti, le relazioni sociali di una persona in modo sufficientemente grave, da rendere problematica la sua vita, e causare sofferenza.

Il disturbo mentale viene spesso contrapposto alla normalità, ma entrambi i concetti, forse, sono difficili da precisare. Non è molto chiaro, a mio avviso, a cosa serve, e soprattutto a chi serve giudicare, classificare, etichettare le persone in termini di normalità.

 

 

La lobotomia nasce ufficialmente nel 1935, anno in cui venne messa a punto dal neuropsichiatra portoghese Antonio Egas Moriz. Il medico credeva ci fosse un’origine organica dei comportamenti psicotici, che questi fossero causati da un’anomala sensibilità delle connessioni cerebrali, e la sola soluzione fosse da cercare nell’asportazione chirurgica di parti dei lobi frontali del cervello.

I paradossi della medicina vedono come caposaldo il premio Nobel di Moriz, per la creazione della Lobotomia.

Ma fu Freeman a diventare successivamente il “lobotomista” più famoso d’America, e a perfezionare ulteriormente la tecnica utilizzata dal predecessore. Nella lobotomia transorbitale, così come la praticava Freeman, al soggetto veniva sollevata la palpebra superiore dell’occhio, e, attraverso uno strumento prettamente medico, come un punteruolo utilizzato spesso per sbrinare il frigorifero, veniva perforato il sottile strato osseo, inserendo lo strumento nel cervello. Qui, attraverso movimenti decisi e mirati, veniva mosso il punteruolo avanti e indietro, spesso alla cieca, al fine di distaccare i lobi frontali dal talamo.

A questo punto iniziava il vero show del medico, che rese l’operazione tanto semplice ed immediata, da delegarla tranquillamente a medici e psichiatri che non avevano alcuna formazione ed esperienza nel campo della chirurgia.

A partire dagli anni 40 sia Moriz che Freeman iniziarono a pubblicare numerosi articoli per far conoscere la cura miracolosa, che a parer loro poteva risolvere molte patologie, e molti disagi causati da queste. Per questo andava raccomandata anche a pazienti con lievi sintomi, in modo da incrementare ulteriormente il numero di persone sottoposte alla procedura. La lobotomia ebbe anche un grande impatto nei media, che definivano entusiasmante il miracolo di Freeman. Questo entusiasmo non era certo frutto del caso, in quanto molto spesso lo show sfiorava la spettacolarizzazione, con la partecipazione del pubblico, giornalisti compresi, agli interventi. Un modo come un altro per ridicolizzare un intervento chirurgico, come se forare il cervello di un individuo fosse straordinario quanto andare al circo. Chissà se pagavano anche il biglietto di entrata…

Quel che è certo è che Freeman era così sicuro della sua procedura, e soprattutto era estremamente conscio dell’aspetto spettacolare di questa, che spesso la eseguiva con una mano sola. Un po’ come saltare in un cerchio di fuoco; intanto inerme, sotto alle sua abili mani, c’era solo un paziente. Quel che veniva omesso, ovviamente, è che qualche volta gli capitava di bruciacchiarsi un po’ il suo prezioso pelo da medico; il punteruolo spesso si spezzava, restando all’interno del cervello del malcapitato.

Gli effetti della lobotomia sono oggi comprensibili, grazie alle maggiori conoscenze acquisite, riguardo questo organo così fondamentale per la vita dell’uomo, che spesso sottovalutiamo. Lo spolveriamo ogni tanto, dimenticandoci le sue vere utilità da organo pensante. Il lobo frontale del cervello costituisce la porzione più anteriore di questo, che svolge un ruolo fondamentale e cruciale nella cognizione e nel comportamento. La parte ventrale dei lobi frontali, detta corteccia orbito-frontale, che è la zona maggiormente interessata dall’intervento, è coinvolta nel comportamento emozionale, nella motivazione, nel sentimento, nella capacità di attribuire un valore alle cose, persone, eventi, nella valutazione del rischio, e del comportamento sociale. Riassumendo con una sola parola: la personalità.

Vogliamo davvero privare un essere umano della sola cosa che lo rende unico?

Verso gli inizi degli anni 50 iniziarono ad accumularsi le prove della scarsa efficacia del trattamento, portando progressivamente al suo abbandono.

 

I primi a bandirla furono i sovietici nel 1950, bollando la pratica come “contraria al principio dell’umanità”.

Forse è meglio andare al circo.

Quello della lobotomia è stato un caso emblematico ed eclatante, ma di certo non un evento isolato.

Purtroppo la storia tende a ripetersi continuamente, con nuove tecniche, procedure formali, rimedi, e vede sempre gli stessi protagonisti: una malattia disabilitante e incurabile, apparenti benefici iniziali, dati clinici omessi o falsati, fama, potere e tanta mediaticità.

Criticare è sempre facile, tutti lo sappiamo fare; è la prima cosa che s’insegna al bambino alla nascita, dopo la parola “mamma”, ed è di certo anche un mio talento indiscusso. Ma la verità è che la lobotomia è il prodotto del suo tempo. E’ giusto inserirla nel suo contesto storico, e accettare la triste realtà; ovvero che tutto questo può succedere quando sia medici che pazienti si ritrovano ad affrontare una situazione apparentemente senza speranze. Spesso la disperazione portava ad affidare tante persone nelle mani dei “lobotomisti”; e una situazione analoga la possiamo riscontrare al giorno d’oggi, se consideriamo i molti pazienti affetti da tumori incurabili, che si affidano a terapie alternative non convenzionali. Se si condisce il tutto con una buona pubblicità i guadagni crescono, e le malattie incurabili diventano improvvisamente fruttuose.

Come può la psichiatria essere priva di qualsiasi restrizione e autocritica?

Se torniamo un attimo indietro nel tempo, a andiamo a rispolverare il caro vecchio Olocausto, ci accorgiamo che tutto l’orrore del mondo non sarebbe stato possibile senza che la psichiatria tedesca avesse prima dimostrato che l’omicidio di massa poteva essere compiuto in modo sistematico. L’annientamento degli abitanti degli ospedali psichiatrici della Germania, organizzato ad opera della psichiatria, è stato il primo passo verso l’Olocausto. Un passo dopo l’altro. E mentre l’omicidio di massa dei pazienti mentalmente instabili andava per la maggiore in Germania, l’America non voleva di certo essere lasciata in disparte; fioriva il dibattito che domandava ai cittadini se fosse meglio sterilizzare o uccidere i bambini considerati ritardati, che dimostravano dunque un basso QI. Un referendum come un altro. Queste erano le opzioni: la sterilizzazione o la morte.

Dall’Olocausto psichiatrico alla lobotomia, all’elettroshock.

Queste sono le dimostrazioni di come la medicina può diventare distruttiva quando considera i pazienti non come esseri umani, ma come fonte di un possibile guadagno.

Le verità sono tante, troppe, sempre più sconcertanti. I fatti storici ci indirizzano verso la nascita di questa nuova disciplina, la psichiatria, che prendeva sempre più piede nell’immaginario collettivo. Tra il 19 e 20 secolo questa novella branca della medicina, coniava un termine destinato a diventare un caposaldo per moltissime generazioni a venire: la paranoia.

Veniva inculcato nell’immaginario collettivo l’idea che un atteggiamento di diffidenza persistente, uno stato di semi apatia, dovuto a chissà quale motivo reale o immaginario, fosse sintomo indiscusso di una patologia mentale. Questo stato paranoide divenne ben presto una sindrome psicotica. Se gettiamo nella mischia il TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, possiamo certamente intuire come questa fantomatica sindrome paranoide volgeva a favore di chi deteneva il potere, in quanto ad assaggiare l’elettroshock, la vita da manicomi, la lobotomia, caso vuole fossero quasi sempre individui che nutrivano dubbi e perplessità riguardo l’autorità.

Il potere veniva tutelato, l’individuo mandato alla gogna.

 

Paura, disgusto, vergogna.

Queste sono le emozioni che mi risalgono in gola come un conato, immergendomi in queste macabre realtà.

Eppure sono certa che le stesse emozioni venivano provate dinnanzi a persone affette da disturbi mentali; e quel che è peggio, è che la paura, il disgusto, la vergogna vengono provate tutt’ora di fronte a situazioni analoghe.

 

Il manicomio era il luogo per eccellenza dove venivano rinchiuse le persone che s’intendeva dimenticare.

 

Un esempio eclatante di paura, disgusto, e soprattutto vergogna, lo ritroviamo proprio tra le mura di quella che era la celebre famiglia Kennedy; dove il potere era talmente sano e vigoroso da non poter essere macchiato, i panni sporchi si lavavano dunque in famiglia, e le “debolezze” andavano eliminate. Era il novembre del 1941, racconta la storia, quando una totalmente cosciente Rosemary Kennedy si recava all’ospedale della George Washington University, seguiva le istruzioni dei medici, che la incoraggiavano a canticchiare e a raccontare storielle divertenti; nel mentre le venivano fatti due buchi in testa, le venivano tagliate le terminazioni nervose, finchè le storielle non divennero incoerenti, e la donna improvvisamente silente.

Rosemary Kennedy morì ad 86 anni con un cervello di una bambina. Ma non era sempre stata così; fino ai 23 anni era una bella ragazza, leggermente ritardata, che come tante coetanee amava il ballo, gli uomini, il teatro. Rosemary era diversa, ma non infelice.

Cosa spinse l’intera branca della medicina generale a seguire il dottor Freeman?

La domanda che dobbiamo porci, a questo punto, non è come un uomo possa deragliare, perdere il senno, assetato dal potere. Ma come può farlo la scienza?

Cosa chiede l’essere umano alla medicina, l’assenza del dolore? L’assenza della sofferenza? Ma a quale prezzo?

Forse dovremmo chiederci quali sono le caratteristiche che delineano un essere umano. Se è più importante smettere di soffrire, o mantenere la nostra personalità, ciò che siamo, la nostra identità.

La lobotomia rappresenta di certo uno scandalo scientifico senza precedenti. Ma la cosa che più mi disgusta è che questa pratica venne abbandonata negli anni 50, non tanto perché non fosse moralmente corretta, ma perché in quegli anni si erano resi disponibili nuovi strumenti, tranquillanti, che pretendevano di portare alla guarigione completa. Dal punto di vista etico e morale, che esista una netta differenza tra psicochirurgia e tranquillanti, è un fatto inquietante che ancora vive nell’ombra della medicina del tempo.

Vogliamo davvero privare un essere umano della sola cosa che lo rende unico?

Proviamo, per un secondo solo, a guardare il mondo con gli occhi di un malato mentale. Loro credono in qualcosa; che sia un cielo verde, di essere un extraterrestre, o di coltivare una piantagione di marijuana, o di parlare con i morti. Tutti noi crediamo in qualcosa; crediamo nella verità dei nostri sentimenti, e pretendiamo rispetto per le nostre idee e le nostre emozioni.

Anche la rabbia ci contraddistingue come esseri umani. Anche arrabbiandoci dimostriamo di esistere e di essere unici.

Proviamo ora ad immaginare a tutte quelle volte che ci siamo sentiti impotenti nel corso della nostra vita; moltiplichiamo questa sensazione per un milione di volte, e riusciamo appena a sfiorare le mille occasioni in cui i malati psichiatrici si sentono inutili, e si scontrano con la realtà dell’inesistenza delle loro idee, e dei loro sentimenti.

E’ tristemente vero, il disturbo mentale viene spesso contrapposto alla normalità. Ma dato che entrambi i concetti sono difficili da precisare, forse, sarebbe un’ottima rivoluzione smettere di normalizzare.

 

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