E’ proprio questa la malattia del ventunesimo secolo: quella dell’esplosione degli smartphone, delle chat, dei social network, di tutto ciò che abbraccia il mondo digitale e che ci dà la sensazione di essere sempre circondati da un’infinità di persone, ma che di fatto ci rende ancora più soli.
Progetto “Removed” di Eric Pickersgill che attraverso i suoi scatti racconta la schiavitù moderna dalla tecnologia“Ma se ho trecentocinquanta amici su Facebook, cosa ci faccio di sabato sera solo davanti al computer?” Questo è il pensiero che mi tormenta ogni volta che rifletto sul fenomeno dei social. Ho sentito questa frase da un comico, tempo fa, in una trasmissione televisiva che mi ha portato a riflettere e a fare una serie di valutazioni.
Sicuramente quello della dipendenza dalle tecnologie è un argomento trattato più volte, trito e ritrito, di cui si parla quotidianamente: “Questi smartphone ci stanno bruciando il cervello!” , “La tecnologia danneggerà la nostra esistenza”. Monotone affermazioni ripetute fino alla nausea. Uno dei tanti cliché sulla bocca di tutti, il discorso jolly che tiriamo fuori quando siamo in difficoltà o a corto di argomenti.
Eppure, stiamo parlando di un fenomeno dilagante che spesso sfocia in una vera e propria patologia che prende il nome di “Nomofobia“. Il nomofobo ha la necessità di controllare costantemente lo smartphone in attesa di notizie e notifiche in arrivo. Secondo gli studi di David Greenfield, assistente clinico presso la facoltà di Psichiatria del Connecticut, l’attaccamento al proprio smartphone ha la stessa valenza di altri tipi di dipendenza che comportano la disregolazione della dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore che regola il “sistema di ricompense del cervello”, ovvero motiva le persone a compiere azioni per cui si pensa riceveranno un premio: “Ogni volta che si riceve una notifica sul telefono, c’è un piccolo aumento della dopamina che ci informa che potrebbe essere qualcosa di interessante, sia questo un messaggio di testo, una email, o qualsiasi altra cosa. Il fatto è che non sai quando arriverà una nuova notifica, e questo costringe il cervello dell’individuo affetto dalla patologia a continuare a controllare. E’ come se fosse una slot machine.” sostiene il professor Greenfield.
La nomofobia è un fenomeno di cui si parla ormai da parecchi anni, da quando il settore degli smartphone si è rivolto alle masse e che da poco è stata aggiunta all’interno del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), ovvero nel manuale delle patologie riconosciute ufficialmente.
Prendiamo come esempio Facebook: il social network che ha rivoluzionato le nostre vite. In Italia su 61 milioni di persone, all’incirca 26 di queste vi sono iscritte e la maggior parte vi accedono quotidianamente. Una piattaforma sociale tramite cui ognuno condivide foto, pensieri, stati d’animo, link, giochi… Io faccio parte di quei 26 milioni di utenti Facebook che accede quotidianamente al social network. Scrivo informazioni riguardanti la mia vita e ne ricevo altrettante riguardanti la vita degli altri. Alcuni sono amici, altri conoscenti, altri a malapena so chi siano.
Ci circondiamo costantemente di persone che non conosciamo e di cui spesso neanche ci interessa molto. Ci estraniamo dalla realtà, creandone una fittizia, artefatta, in cui ci nascondiamo in solitudine. Ci lamentiamo di non avere un attimo per stare da soli, ma quando capita, passiamo il tempo a chattare.
In un mondo iperattivo come quello in cui viviamo, la solitudine, soprattutto con noi stessi e i nostri pensieri, ci spaventa. Colmiamo le nostre giornate di lavoro, impegni, incontri e se restiamo senza nessuno, ci attacchiamo allo smartphone, che usiamo come riempitivo nei momenti in cui lo stare soli ci crea disagio.
Tuttavia, non credo che i social network siano solo questo. La possibilità di informarsi in maniera rapida, ritrovare e mantenere persone e relazioni che non si fermano solo al virtuale.
In una realtà in cui il mondo digitale ci nega una profondità emotiva, la consapevolezza che alcuni momenti dovrebbero essere solo nostri e in cui non siamo quasi più in grado di parlarci guardandoci negli occhi, credo che dovremmo trovare un equilibrio per usare la tecnologia come mezzo per accrescere e arricchire le nostre conoscenze e non per rimanerne tristemente intrappolati.
Giulia Attanasio