La sera del 27 luglio 1993 un’autobomba uccise cinque persone in via Palestro a Milano, nei pressi della Galleria d’arte Moderna. A compiere la strage fu Cosa nostra che nel biennio 1992-1993 dichiarò guerra aperta allo Stato italiano prendendo di mira anche la società civile e il patrimonio artistico nazionale.
La strage di via Palestro che il 27 luglio di trent’anni fa colpì nel cuore la città di Milano in una calda e anonima serata d’estate, s’inserisce in una più ampia strategia della tensione messa a punto dalla mafia siciliana negli anni tra il 1992 e il 1993, e finalizzata ad attaccare frontalmente lo Stato nel tentativo di renderlo più debole e ricattabile.
Nel biennio delle bombe del ’92-’93, Cosa nostra, per portare a compimento il proprio disegno eversivo, mise letteralmente a ferro e fuco l’Italia provocando la morte di ventuno persone, compresi i due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
L’attentato dinamitardo di via Palestro costò la vita a ben cinque persone, danneggiando gravemente un’ala del Padiglione di arte contemporanea (PAC) e alcuni ambienti della Galleria d’arte moderna.
Diversamente da quanto visto in passato, tra gli obiettivi degli attentati del ’92-’93 non ci furono soltanto magistrati, poliziotti e uomini delle istituzioni ma anche cittadini innocenti. In quegli anni, la forza della mafia era così grande che l’ondata stragista arrivò a minacciare tutta la società civile, prendendo di mira anche il patrimonio artistico nazionale.
Nella lunga notte del 27 luglio 1993, a distanza di poco più di quaranta minuti dall’esplosione di via Palestro, a Roma due autobombe danneggiarono le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro, provocando ventidue feriti. L’obiettivo degli attentati non fu frutto di una scelta casuale perché i monumenti colpiti portavano il nome dei due presidenti in carica di Camera e Senato, rispettivamente Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini.
Le vittime e i mandati della strage
Circa due mesi prima della strage di via Palestro, nel maggio del 1993, i mafiosi Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e Francesco Giuliano, furono incaricati di macinare e confezionare l’esplosivo in una casa fatiscente in Corso dei Mille, a Palermo, messa a disposizione da Antonino Mangano, capo della famiglia mafiosa di Roccella. I mandanti della strage furono i boss mafiosi Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella.
Nella prima metà del mese di luglio, l’esplosivo venne nascosto in un doppiofondo ricavato nel camion di Pietro Carra, autotrasportatore che gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio, che lo trasportò ad Arluno, in provincia di Milano, insieme a Cosimo Lo Nigro.
Ad Arluno, Carra e Lo Nigro furono raggiunti da una persona che li condusse in una località sicura dove scaricarono l’esplosivo. Il giorno della strage, Lo Nigro e Giuliano si spostarono da Milano a Roma per organizzare gli attentati alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro.
La sera del 27 luglio alcuni testimoni videro una donna, Rosa Belotti, parcheggiare la Fiat Uno imbottita di tritolo in via Palestro, non distante dalla Galleria d’arte moderna. Alle 23:14, l’auto esplose provocando la morte dell’agente di polizia locale Alessandro Ferrari, allertato da alcuni passanti preoccupati dal fumo che fuoriusciva dall’autovettura. Insieme a Ferrari persero la vita tre vigili del fuoco, Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno chiamati sul posto per un sospetto principio d’incendio della Fiat Uno, e l’immigrato marocchino Moussafir Driss seduto su una panchina poco distante.
Le indagini e i processi
Negli anni seguenti, quando la stagione delle stragi cessò, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco permisero di ricostruire l’esecuzione della strage di via Palestro.
Nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993.
Nel 2002, la procura di Firenze, sempre in base alle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Carra e Scarano, dispose l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso, uomini d’onore di Misilmeri, che secondo la indagini aiutarono Lo Nigro a scaricare l’esplosivo ad Arluno per poi compiere materialmente l’attentato. L’anno seguente, la Corte d’assise di Milano condannò i fratelli Formoso all’ergastolo e tale condanna venne confermata anche nei due successivi gradi di giudizio.
Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sulla strage di via Palestro
Nel 2008, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza, reggente della cosca di Brancaccio dopo l’arresto dei fratelli Graviano e sicario di Cosa nostra, emersero nuovi particolari sugli esecutori materiali dell’attentato in via Palestro.
In particolare, durante gli interrogatori Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino, mafiosi di Brancaccio, mesi prima della strage parteciparono a una riunione in cui vennero decisi i gruppi che avrebbero dovuto operare su Roma e Milano per compiere gli attentati. Secondo Spatuzza, furono Formoso e i fratelli Tutino a operare su Milano, e in un primo momento lui stesso insieme a Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell’esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell’attentato.
Grazie alle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2014 la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Marcello Tutino accusato di essere il “basista” dell’attentato di via Palestro. Ma l’anno successivo, Tutino venne assolto dalla Corte d’assise di Milano poiché le sole dichiarazioni di Spatuzza furono considerate insufficienti per una condanna; l’assoluzione venne confermata in appello e in Cassazione.
La questione (mai risolta) dei “mandanti occulti”
A distanza di trent’anni, i “mandanti occulti” delle stragi di mafia sono ancora senza nome. Gli attentati a Falcone e Borsellino, così come quelli di via dei Georgofili a Firenze e di via Palestro a Milano, furono materialmente compiuti da Cosa nostra ma numerose testimonianze e processi chiamarono in causa apparati deviati dei servizi segreti.
Nel 1994 la Procura di Firenze aprì un secondo filone d’indagine parallelo per accertare le responsabilità negli attentati del 1993 di eventuali attori esterni ai quadri di Cosa nostra. L’indagine venne condotta dal procuratore capo Pier Luigi Vigna e dai sostituti procuratori Fleury, Chelazzi e Nicolosi.
Nel 1996 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sotto le sigle “Autore 1” e “Autore 2” per concorso in strage, in seguito alle dichiarazioni de relato dei collaboratori di giustizia Pietro Romeo, Giovanni Ciaramitaro e Salvatore Cancemi, quest’ultimo vicinissimo a Totò Riina e custode di segreti importanti sulla strategia stragista portata avanti dalla mafia negli anni novanta.
Nel 1998, il giudice per le indagini preliminari di Firenze archiviò l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2” al termine delle indagini preliminari. Il motivo dell’archiviazione fu la mancata conferma delle chiamate de relato e delle intuizioni logiche, sebbene si evidenziasse nel decreto di archiviazione che vi era «un’obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa Nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche della nuova formazione» (il nascente partito di Forza Italia) e che durante le indagini «l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità».
Nel 2017, la Procura di Firenze ottenne dal GIP (giudice per l’indagine preliminare) la riapertura del fascicolo a carico di Berlusconi e Dell’Utri, basandosi sulle parole del boss Giuseppe Graviano, intercettato in carcere mentre parlava di una “cortesia” fatta al leader di Forza Italia. La testimonianza di Graviano diede nuovo impulso alle indagini da parte della Procura di Firenze e le dichiarazioni del boss di Brancaccio confluirono nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Durante il processo, Giuseppe Graviano ammise esplicitamente per la prima volta di aver incontrato Berlusconi nei primi anni ’90, confermando quanto emerso dalle sue intercettazioni in carcere e facendo riferimento ad “imprenditori del Nord” che non volevano che le stragi finissero.
Fu solo la mafia?
Nel 1998 la sentenza di primo grado per le stragi del 1993 accertò che, nel periodo tra le stragi di Capaci e via d’Amelio, i vertici del ROS (Reparto operativo speciale) dell’epoca, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, cercarono Vito Ciancimino, allo scopo di “fermare le stragi e avere informazioni”. A Roma la paura di nuove bombe, aveva portato diversi soggetti a prendere in considerazione la possibilità di trattare con Cosa nostra.
In quegli stessi mesi, il maresciallo Roberto Tempesta stabilì un altro contatto con il boss Antonino Gioè attraverso l’infiltrazione dell’ex terrorista nero di Avanguardia Nazionale, Paolo Bellini, diventato negli anni confidente del SISMI.
Ufficialmente, l’obiettivo di Tempesta era quello di recuperare alcuni pezzi d’arte rubati. Ma i collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, dichiararono che, in vista degli incontri tra i vertici del ROS e i boss di Cosa nostra, Riina preparò un elenco di richieste che riguardavano benefici per i mafiosi detenuti e la revisione del Maxiprocesso (il cosiddetto “papello”).
Tra il ’93 e il ’93 la mafia siciliana tentò un ultimo colpo di coda compiendo alcuni omicidi tra le forze dell’ordine che costarono la vita agli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio.
Si trattò degli ultimi fatti di sangue prima del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, sempre contro i Carabinieri, il 27 gennaio 1994. Dopo quella data, non ci fu più bisogno di ricorrere alla strategia stragista poiché, come accertarono le indagini della Procura di Palermo, nel 1994 “Graviano, Provenzano e Bagarella, si impegnarono e profusero le loro energie per favorire ed appoggiare l’affermarsi di un nuovo partito politico e cioè Forza Italia”. E infatti dal marzo 1994, con la vittoria di Silvio Berlusconi, in tutta Italia non ci furono più attentati.
Tommaso Di Caprio
.