Il 27 gennaio 1945 i russi liberano Auschwitz, e il mondo conosce l’orrore

Immaginiamo noi stessi di fronte ad Auschwitz: per noi è più un luogo di solenne commemorazione, o una meta turistica un po’ creepy , come Chernobyl?

Prima di ricordare cos’è successo quel 27 gennaio del 1945 è opportuno soffermarsi sull’aura di solennità che circonda in particolare Auschwitz da allora. È più un luogo di solenne commemorazione, o una meta turistica un po’ creepy , come Chernobyl? È difficile dirlo, a causa della grande e ambigua “fortuna” di cui godono i prodotti editoriali e cinematografici che trattano di Auschwitz e della Shoah in generale.

Per qualsiasi motivo potremmo mai ritrovarci lì, leggiamo all’entrata dell’ex campo di sterminio“Arbeit macht frei”,  Il lavoro rende liberi. Possiamo leggerci tra le righe “Il lavoro rende infimi”,  dal momento che lo sfruttamento degli ebrei in attività lavorative di vario tipo non aveva finalità economica, ma ideologica: infatti, cos’avveniva ad Auschwitz come negli altri campi, oltre che superficialmente le docce con gas letali e i maltrattamenti fisici? Avveniva la degradazione morale del detenuto, causata dal lavoro sfibrante e da condizioni di vita miserevoli. Così il detenuto era disposto a qualsiasi stratagemma per sopravvivere, anche a tradire i compagni di sventura collaborando con i nazisti.

Così, un detenuto ebreo traditore e misero, diventava falso, immorale, privo di solidarietà: diventava tutto ciò che l’ideologia di inferiorità razziale degli ebrei gli attribuiva.  Così i nazisti giustificavano “a posteriori” la necessità dello sterminio, e spiegavano quel modo di agire così subdolo non con le condizioni di vita da loro create, ma con il modo di essere proprio dell’ebreo.



Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa spalanca i cancelli di Auschwitz e cosa trova? “la massa anonima, sempre identica, dei non-uomini”

“Se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”, scrive Primo levi in Se questo è un uomo.

Primo Levi, nato a Torino nel 1919, viene arrestato nel 1944 e condotto ad Auschwitz. Essendo malato, evita la rovinosa marcia di trasferimento dei detenuti organizzata dai nazisti, per anticipare l’arrivo dell’Armata Rossa nel campo polacco. Una marcia che vede coinvolti i prigionieri sani, che potevano essere ancora uccisi, mentre i malati erano lasciati ad aspettare la morte. Una marcia nella quale le SS portano con sé 60 000 detenuti per andare verso i lager dell’Ovest, dove arrivarono in pochi.

Così, il giorno in cui le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino trovano 7 000 prigionieri ancora in vita, è il giorno che l’Onu ha scelto nel 2005 per celebrare questa strage.

Ciò che rende unico lo sterminio nazista è il suo essere il primo sterminio “moderno”

In passato c’erano già state grandi uccisioni di ebrei,  questa volta però la motivazione non era religiosa, bensì razziale, quindi scientifica: così, se prima si risparmiavano gli ebrei che si convertivano, ora non c’erano eccezioni di alcun tipo. La scienza si sostituiva alla fede. In più, il massacro non è eseguito da masse popolari infuriate, ma da burocrati efficienti, che eseguivano freddamente il loro lavoro: è la banalità del male descritta da Hannah Arendt ricordando il processo Eichmann.

Adolf Eichmann fu il funzionario incaricato di organizzare nei tempi e negli spazi i convogli ferroviari diretti ad Auschwitz, un ingegnere gestionale d’altri tempi che incarna il nuovo tipo di criminale, un burocrate che non si sporca le mani e non conosce le sue vittime.

Nel nostro immaginario Auschwitz è ancora l’apice della crudeltà umana, o il mondo è stato capace di un male peggiore?

Alla base delle crudeltà su larga scala di oggi non c’è l’ideologia, che è una specie in via di estinzione in qualsiasi campo, ma l’indifferenza. L’indifferenza tanto delle autorità locali, quanto di ognuno di noi. Quasi come la ritirata in gennaio, con la neve della Polonia, delle SS con i detenuti sopravvissuti, lo scorso 23 dicembre c’è stata quella dei profughi dopo l’incendio del campo di Lipa in Bosnia: l’Oim aveva deciso la chiusura del campo nello stesso giorno in cui è bruciato, per via della sua inadeguatezza a ospitare persone: non ci sono fogne, così come acqua o tanto meno elettricità. Fino a quel momento era l’unico riparo per centinaia di persone respinte da Croazia, Slovenia e Italia.

Così i profughi, trovatisi in mezzo al nulla, hanno cercato di raggiungere il campo della città di Bihac, ma sono stati respinti dalle autorità, che non vogliono ospitarli: a quel punto in parte sono tornati ai resti del campo bruciato, arrangiati alla meglio, in parte si sono dispersi nella foresta lì vicino. Un reportage ci racconta che ricevono un solo pasto nella giornata, e che alcuni di loro hanno ai piedi solo delle ciabatte di gomma. In mezzo alla neve.

Le ideologie cambiano, si susseguono, si spengono, ma l’indifferenza si perpetra negli anni: chi ricorderà le sue vittime?

Francesca Santoro

 

 

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