25 Novembre e patriarcato: nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, lo sguardo è sempre incentrato sul binomio “donna-vittima” e poco sul retaggio culturale che questo binomio rafforza
25 Novembre e patriarcato: sguardo mediatico
25 Novembre, sono ormai 23 anni che questa Giornata si tinge di rosa e rosso (profondo, quasi horror) in tutto il mondo e in tutte le dimensioni. La dimensione “meta”, dei social, è tempestata da guance tinte con una riga di rossetto. I media, istituzionali e non, si vestono di rosa, in segno di vicinanza e ascolto alle donne, mostrando foto di labbra cucite o di occhi neri, lividi. Le piazze, oltre ad ottenere una nuova panchina rossa ogni anno, si riempiono, le donne prendono lo spazio e lo fanno proprio, lo rendono luogo politico in cui dirsi.
Tutto questo serve a fermare la violenza, come gli slogan chiedono? I dati parlano chiaro, no. Gli uomini continuano a commettere violenza sulle donne.
Dove si cela la violenza?
Molte donne vengono uccise, molte altre stuprate, sulla carne si consumano abusi. Eppure la violenza non sempre è tangibile sul corpo. Il linguaggio ne è un altro tramite. Le parole sono pietre e, come tali, possono essere scagliate, possono lapidare. Molte donne ricevono commenti non richiesti, insulti decontestualizzati, inviti inopportuni. Il fattore comune sottostante la violenza fisica, verbale e psicologica, è il retaggio culturale sottostante.
Quello che il “femminismo” proposto dalle istituzioni, il “femminismo di stato” vuole occultare. Un “femminismo” che punta i riflettori sul femminile nell’ambito che lo lega alla violenza, “essere donna ed esser(n)e vittima”. Questa visione paternalistica della donna, che va protetta e difesa, è rassicurante per un potere che ha bisogno di tenere il femminile a bada, incasellato, fragile, in una campana di cristallo, indebolendoci. La violenza diviene questione politica, spostando l’attenzione, invece, dalla cultura che ne è la radice.
Cultura maschilista e patriarcato
A partire dall’educazione impartita da dagli stadi iniziali della socializzazione, nell’infanzia, è imposta una divisione sessuata dei ruoli, in cui la femminilità e la mascolinità sono separati. Sulla base di modelli maschili e femminili da seguire, nascono gli stereotipi, sui quali si costruisce l’identità, come questa è e come deve essere e agire in determinate situazioni.
“Sin dalla scuola materna, maschi e femmine crescono insieme ma, paradossalmente, senza un’educazione alla valorizzazione delle differenze, la vicinanza fisica si trasforma in lontananza psicologica” – Silvia Vegetti Finzi
Femminilità e fuga dalla violenza, è un binomio insegnato e trasmesso alle bambine (le più famose fiabe ne parlano). Binomio che presuppone la fragilità e la subalternità del femminile, che richiede alle donne di prestare attenzione al lupo. Implica che, sin dalla crescita, il modello di donna debba a priori rinunciare ad una parte di libertà.
“[…] ciascuna di noi è in parte politicamente costituita dalla vulnerabilità sociale del proprio corpo, in quanto luogo del desiderio, e dalla vulnerabilità fisica, in quanto luogo di una dimensione pubblica a un tempo esposta e assertiva […]” -Judith Butler
A far da sfondo alla violenza, vi è la disparità. Una società in cui la differenza non è insegnata e valorizzata. In cui la differenza viene recepita come vuoto da colmare, istituendo delle canonizzate “pari opportunità”. Queste inseguono la disuguaglianza, sottolinenando le asimmetrie riscontrabili nell’ambito lavorativo, sociale e politico. Ecco che l’oppressione femminile prosegue nel principio giuridico di uguaglianza, tramandato con timore. Tramandato con il timore che al potere maschile, la donna vi partecipi, e che ne metta in discussione le fondamenta.
“È per sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene riconosciuto l’inserimento a titolo di uguaglianza” – Carla Lonzi
Nuove sfumature e radici
Oggi, 25 novembre, i media sono colmi di prospettive, raccolte dati e fotogrammi riguardo le violenze subite dalle donne. La violenza esiste ed è un fenomeno difficile da affrontare. Tuttavia, è uno dei frutti che cadono dal grande albero del patriarcato. Le radici sono profonde e scavate nel terreno. Continuare a seppellirle con “politiche” che ne sono l’espressione, può solo sotterrare noi. Donne. Insieme, unite, a contatto con la natura nostra, altra, è possibile pensare a modi, altri, di coltivare.