Kosovo, i disordini e le violenze etniche del 17 marzo 2004

Kosovo una ondata di violenza

Sono passati vent’anni esatti da quella che ancora oggi i serbi chiamano “la notte dei cristalli” quando una notizia drammatica, ma mezza falsa, scatenò in Kosovo una ondata di violenza animata dall’odio etnico e che nei giorni successivi costò la vita a 28 persone, provocò 954 feriti e costrinse allo sfollamento 4.100 abitanti, in maggioranza di nazionalità serba.

Nei giorni precedenti un ragazzo serbo era stato ucciso da tre albanesi armati e mentre la popolazione serba scendeva in piazza per protestare e chiedere giustizia si fece largo la notizia della morte di due bambini albanesi affogati in un fiume perché inseguiti e minacciati da ragazzi serbi.

In seguito il portavoce dell’UNMIK, Derek Chappell poté parlare con un terzo bambino presente all’accaduto che negò la presenza dei ragazzi serbi e ammise che erano entrati nel fiume da soli e purtroppo due di loro erano stati portati via dalla corrente. Si era trattato di una tragedia, l’odio etnico non c’entrava niente, ma tanto bastò per scatenare in Kosovo una ondata di violenza capace di far rivivere drammi visti solo durante la guerra.

Kosovo, alle origini della violenza

Le città nel nord del Kosovo, abitate in gran parte dalla minoranza serba, furono prese di mira da oltre 50 mila albanesi che per due giorni distrussero e bruciarono case, chiese, negozi e monasteri ortodossi. La principale città della regione Mitrovica è divisa tra le due etnie dal fiume Ibar e il ponte principale fu preso d’assalto con le forze armate KFOR incapaci di disperdere la folla. L’ondata di violenza etnica si allargò ben presto a tutto il paese e i bersagli non furono soltanto i serbi, ma anche rom, ashkali (rom di lingua albanese) e insomma chiunque non fosse albanese.

Tra i monasteri danneggiati quello di Visoki Decani celebre per un bellissimo affresco al suo interno e oggi protetto dall’UNESCO. Altri edifici storici e religiosi sono stati bruciati o rasi al suolo come ad esempio il complesso di Nostra Signora di Ljeviš a Prizren. I danni complessivi di quei giorni di follia costarono al governo kosovaro e a diversi donatori internazionali oltre 200 milioni di euro.

Oltre 4000 persone di etnia serba furono costrette a lasciare le proprie case e in questo senso fu particolarmente tragica la situazione nel villaggio di Belo Polje preso d’assalto dai manifestanti albanesi che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi nella chiesa per sfuggire ad una aggressione con armi e bombe molotov. Oggi in quel paese vivono circa 1000 anime e i serbi sono rimasti in tre, ma una ondata di violenza come quella di quei giorni in molte località simili ha provocato la fuga dell’intera popolazione non albanese costretta ad abbandonare le proprie abitazioni molto spesso senza poi più fare ritorno. In cittadine come Svinjare, nel nord del paese, tutte e 137 le case appartenenti a serbi furono bruciate.

Gli scontri avvenuti in quei giorni trovarono la prima origine negli avvenimenti dei giorni precedenti, ma se si prova ad allargare lo sguardo si arriva ben presto a 5 anni prima e alla guerra del Kosovo, ultimo “capitolo” del conflitto esploso nella regione dopo la dissoluzione della Jugoslavia.

Kosovo, le scorie del conflitto e il rapporto HRW

Quello esploso alla fine degli anni 90′ (febbraio ’98-giugno’99) fu un conflitto che costò la vita a oltre 12. 000 civili e che vide contrapposti le forze di polizia serba e l’organizzazione paramilitare albanese dell’UCK il cui obbiettivo primario era l’indipendenza del Kosovo da Belgrado. Il paese dal 1989 era sotto il controllo diretto della Serbia e aveva perso il suo status di “provincia autonoma” inoltre il regime al potere a Belgrado portava avanti a Pristina una politica discriminatoria e repressiva verso la popolazione di nazionalità albanese che nel corso degli anni era diventata la maggioranza in Kosovo.

Tale conflitto fatto di violenze, massacri e sfollamenti ha lasciato nella popolazione scorie ancora oggi non risolte e che dopo soli 5 anni erano vere e proprie ferite aperte capaci di sanguinare al primo contatto.

L’organizzazione di controllo Human Rights Watch nelle settimane successive agli avvenimenti pubblicò un rapporto in cui gli scontri vennero definiti come: «la battuta d’arresto più grave dal 1999 negli sforzi della comunità internazionale per creare un Kosovo multietnico» e le responsabilità per le forze militari internazionali presenti nel paese non mancarono. Sempre secondo il rapporto sia KFOR (Forza armata del Kosovo guidata dalla NATO) e sia la polizia internazionale delle Nazioni Unite (UNMIK)

«Hanno perso quasi completamente il controllo e hanno fallito catastroficamente nel loro mandato di proteggere le comunità minoritarie»

Una ondata di violenza e distruzione come quella del marzo 2004 non poteva essere dimenticata e, soprattutto chi è stato costretto a lasciare la casa, momentaneamente o per sempre, o ha visto uccidere un amico o un parente, racconta ancora con terrore quei momenti. Il paese di oggi, ancora a riconoscimento limitato e sotto l’egida dell’ONU, necessita di tale memoria perché avvenimenti violenti, sebbene fortunatamente di minore intensità, sono avvenuti nuovamente anche negli ultimi anni soprattutto nel nord del paese, e il tema della convivenza pacifica delle diverse etnie all’interno dello stesso stato è ancora apertissimo.

 

                                                                                                                    Andrea Mercurio

 

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