Se mi venisse chiesto cosa mi piacerebbe essere tra tutti gli oggetti, tra tutte le cose che ci sono al mondo, avrei la risposta pronta: una panchina! Non perché io nutra un interesse particolre per il lato b (lo chiamano così, giusto?) della gente, ma perché chissà cosa e chissà quanto conosce una panchina! Le gocce di un gelato troppo grande per una bambina, l’imbarazzo del primo appuntamento, la gioia dell’ ultimo esame, la tristezza dei saluti e la gioia dei ritorni, le fantasie segrete e stravaganti di chi ci si siede a leggere, l’atteggiamento di abbandono della stanchezza, il peso delle lacrime, il suono di risate senza età, la trepidazione dell’ attesa, il sollievo della riuscita… eh, insomma: potessero parlare, le panchine, ci sarebbero da scrivere libri su libri!
Uno per esempio, sarebbe da dedicare alle due donne che stasera erano sedute sulla panchina, quella lì, all’ ombra del pino più alto, in questo parco deserto. Sono arrivate insieme, ognuna col suo passo: quello affaticato della donna anziana e quello leggero della donna giovane. Erano insieme, ma entrambe hanno conservato lo stile del loro passo: è così che si deve procedere, insieme ma senza mai confondersi, senza mai amalgamarsi a vicenda. Si sono sedute e, mentre la donna anziana abbassava lo sguardo, quella giovane ha spinto il collo talmente indietro che la testa penzolava dall’altra parte dello schienale. Per poco, perché poi entrambe hanno riacquistato il loro equilibrio cervicale e hanno guardato dritto davanti a loro. Dritto davanti a loro, sì.
Sono rimaste in silenzio e sembrava un silenzio quasi religioso, significativo, come se, non dicendosi nulla, si stessero aspettando, rispettando. Fin quando, la donna anziana ha guardato quella giovane chiedendole il suo nome. Ed hanno preso a parlare. La giovane le ha raccontato quello che era accaduto poco prima e di quello che avevano fatto nei giorni precedenti e non ho capito, non mi è chiaro se lo dicesse per informare la donna anziana di qualcosa che aveva dimenticato o se lo scopo era ricordare a se stessa chi era, dove era stata e cosa aveva fatto precedentemente. Concludendo, la giovane ha detto: “E anche oggi, il sole sta tramontando. Ecco che passa un’altra giornata”. E la donna anziana, dopo aver sospirato, ha aggiunto: “Eh già. Passa, passa. Passano i giorni, passano i mesi, e passano gli anni. E ad un tratto, ci si ritrova vecchi.” E dopo un breve, timido, malinconico sorriso, ha continuato: “Che poi è un bene perché vuol dire che non sei morto giovane”. L’altra donna non ha detto nulla, ha continuato a guardare la donna anziana come se stesse ancora parlando: e forse è così, solo che a poche persone è dato ascoltare anche quello che dice il cuore.
Quella tranquillità, poi, è stata subito scossa dal rombo di una moto che passava per strada e mentre la giovane sussultava, la donna anziana, con un’aria sorpresa ed uno sguardo illuminato, ha detto: “Oh… passa una moto, guarda! Sapessi quante girate sulla moto ho fatto con mio marito! Io sempre dietro e alla guida sempre lui. Io non so guidare niente, sai, non ho mai imparato a guidare un mezzo”. E lo ha detto con quell’aria, con quel tono simile a quello con cui un bambino dice alla maestra di non sentirsela di leggere davanti a tutti perché non ha voce, mentre invece, ha solo paura. La stessa innocenza. “Era un brav’ uomo, sai. Talmente bravo e ci volevamo talmente tanto bene che entrambi pensavamo sempre: speriamo si muoia insieme. E invece poi la vita, il destino, la morte… accade, è così. E non puoi farci nulla”.
E succede qualcosa che all’inizio mi sfugge, ma poi comprendo: la giovane ha avvicinato il suo volto a quello della donna anziana, come per dirle qualcosa sotto voce, poi se ne è allontanata ma, come ripensandoci, le è tornata vicino, ha preso fiato e le ha chiesto: “Se tornasse indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto?”. Prima di rispondere, la donna anziana ha smesso di guardarsi le mani (ci si guarda sempre le mani mentre si racconta di sé, forse perché sono la parte del corpo che più di tutte può testimoniare, confermare che si sta dicendo la verità, o richiamare in caso di bugia) e ha guardato lì, dritto davanti a sé (chissà perché si tende sempre a guardare avanti, anche quando si parla del passato), ci ha pensato un po’, ma non troppo, e ha risposto: “Mah… sì, forse non tutto. Certo, è stata fatica, eh. Quando i miei figli erano piccoli (ne ho tre), era un gran da fare, ma ero felice perché avevo loro. E quanto sono belli quando sono piccoli! Poi loro sono cresciuti, ognuno ha scelto la propria strada e… e va così. Va sempre come deve andare”.
La giovane è rimasta in silenzio, immobile. Ha compiuto solo un movimento con la mano sinistra: senza spostare il suo sguardo dal punto in cui l’aveva fermato, ha cercato qualcosa nella borsa, tirando fuori un fazzolettino di carta. I fazzolettini di carta lo sanno quando non è il momento di giocare ed occorre farsi trovare. Mi era sembrata una giovane a cui non manca la parola né la voglia di parlare, eppure non ha detto nulla. È rimasta in silenzio.
Fino a quando, la donna anziana non le ha richiesto il nome e quanto tempo avevano ancora da trascorrere insieme. A distanza di poco tempo, le ha riposto le stesse domande. E forse non è male che l’abbia fatto e che la giovane abbia ripetuto il suo nome e cosa accadrà domani: perché ogni tanto si rischia di dimenticarlo.
La donna giovane, a questo punto, ha preso ad elencare le cose che avrebbero fatto in serata e quelle che avrebbero fatto il giorno dopo. E, presa dalla voglia di progettare e di fare, tipica della giovinezza, ha continuato a raccontare di cosa le toccherà portare a termine, di cosa dovrà iniziare, di cosa dovrà perfezionare, cambiare e sistemare… e la donna anziana, con una calma che solo chi sa di aver fatto tutto, o quasi, può avere, posandole la mano sul braccio, le ha detto: “Ricorda che vale più una cosa fatta che dieci non fatte”.
E ha proprio ragione: perché tanti, tante, passano da qui e si siedono senza, però, fermarsi davvero, perché sono in corsa, in perenne corsa verso la completezza, verso la perfezione, verso il finito. Per poi rimpiangere il tempo passato, quello in cui c’era da vivere il presente, semplicemente. Quel presente che, invece, si è impiegato a desiderare, in maniera quasi perversa, il domani, correndoci incontro. Perché bisognava fare, bisognava arrivare, bisognava riuscire: strapazzando il presente, l’attimo immediato che, spesso lo si dimentica, non è che un attimo fuggente. E il tempo fugge. Fugge qui, in questo parco abbandonato, tra i rami di questi pini che hanno fatto l’amore con il vento della storia e che sempre continuano e continueranno ad aspettarlo, su queste panchine fatte di ruggine, di dediche e di parole nascoste tra i loro legnetti. Come quelle che la giovane non ha pronunciato, come quella domanda che avrebbe voluto porre alla donna anziana, quella con cui le avrebbe chiesto: “C’è qualcosa che le fa paura?”, ma che ha nascosto tra il sedile e lo schienale della vecchia panchina. Perché è giusto che ognuno abbia le sue paure segrete, le sue mancanze segrete, i suoi vuoti segreti. E perché, spesso, la risposta a quella domanda, fa paura anche a chi la pone.
Ed è trascorso un po’ di tempo, prima che la giovane si tirasse su, in piedi, cercando il sole dietro il palazzo sulla sua destra. E la donna anziana le ha chiesto: “Te ne vai?”, e ha commosso anche me il tono con cui le ha posto la domanda: quello di chi ha paura di restare da solo, da sola. E che credo, sia uno dei timori più tremendi che accomuna uomini e donne, persone piccole e persone anziane. La giovane le ha risposto che no, non stava andando via. E ha detto la verità, perché è tornata a sedersi. E a guardare davanti a sé, vedendo, puntando chissà cosa.
Non lo so, questo non lo posso sapere. Posso solo intuire che, avendo tanto su cui pensare, su cui riflettere, sarà l’ultima, stasera, ad alzarsi da quella panchina.
Deborah Biasco