Vi parlerò di quelle giornate inutili

Vi parlerò di quelle giornate inutili, durante le quali nulla riesce a strapparmi un sorriso.

Oggi mi sento schiacciata, come la mia coscienza, che mi grida a gran voce che non dovrei essere qui. Quella coscienza che ho smesso di ascoltare da tempo.

Quella coscienza che mi indicava, in una notte senza stelle, quale fosse la mia casa.

Ci sono giornate talmente inutili, da battere ogni record di inutilità galoppante, e da inserire nel record dell’inutilità dell’esistenza umana.

inutili

Sono quelle giornate in cui tento con tutte le mie forze di combattere contro ad un’apatia disarmante, che mi corrode le viscere, risalendo alla regione cardiaca. Si tratta di leggeri spasmi respiratori, credo possano definirsi dei singhiozzi di una vita, la tua, che ti scorre accanto senza mai sfiorarti.

Sono quelle giornate in cui mi sveglio sporca, terribilmente sporca, e mi tengo quella sporcizia addosso, indelebile macchia dell’anima, che non si lava neanche in candeggina.

Sono quelle giornate in cui decido di mandare a quel paese una dieta prestabilita, per la mia salute, il mio fisico, il mio benessere; perchè io valgo di più di 60 grammi di pasta al bianco al giorno, e una minestrina al dado, e se decido di contaminare il mio stomaco immacolato con un super kebab unto, stra colmo di salsa rosa; beh, posso tranquillamente permettermelo.

Alcune storie non si raccontano sdraiate comodamente sul proprio letto, con il pc che ti scalda confortevolmente le ginocchia.

Alcune storie vanno vissute sulla pelle, testate, provate, toccate con mano, e ricordate, insieme ad una bruciatura di sigaretta sulla mano, il giorno dopo.

Oggi voglio parlarvi di quella vita che molto spesso si rinnega, quella vita vissuta al limite del legale, tra una bottiglia di vodka e l’altra, e quella sigaretta, tenuta stretta dall’altra mano, tra il dito indice e quello medio.

Quella sigaretta che a stento avvicini alle tue calde labbra socchiuse, che portano i segni di baci rubati, mai consegnati, ma bramati, ardentemente, con ogni fibra presente in corpo.

Quella sigaretta che piange lacrime di cenere, a terra, impolverando un poco le tue scarpe bianche, immacolate, esalando gli ultimi respiri, consumandosi, bruciando, accartocciandosi, fino a finire sul pavimento, tra il gommino del tacco 12 e la terra nuda.

Schiacciata, come la tua coscienza, che ti grida a gran voce che tu non dovresti essere lì. Quella coscienza che hai smesso di ascoltare da tempo.

Io non sono mai stata una ragazza facile. Non sono mai stata una di quelle ragazza pacate, tranquille sorridenti, la pace dei sensi, in estrema apertura con il mondo che le circonda. Non appartengo di certo a quella cerchia ristretta di persone pacifiche, che trasmettono amore e gioia di esistere, da quegli occhioni da cerbiatto, neri come la notte, ma sempre perfettamente adornati di maquillage, la piega perfetta del capello, e il rossetto mai sbavato sui denti… Una figura, per così dire, estremamente rassicurante.

Avrei tanto voluto trovare la mia casa, il mio posto nel mondo, la mia pace, ma sono sempre stata poco composta, mia abbastanza posata, e con quelle tracce antiestetiche, quei rimasugli di rossetto sui denti; che mi conferiscono l’aria della cannibale, che ha appena azzannato un tenero coniglietto pasquale.

Eppure bramavo la mia terra, la mia casa, il mio posto. Il mio posto nel mondo.

Ho sognato ad occhi aperti, osservando da lontano, da perfetta spettatrice, quella vita mangiucchiata a metà, vomitata, ma perennemente rincorsa, come una corsa ad ostacoli. Quella vita che apparteneva alla mia persona, portava il mio nome e le mie impronte digitali; ma non mi rappresentava, e non sentivo mia.

La mia esistenza è stata sempre un passo avanti; un passo avanti al pavimento freddo e nudo, dove stava sdraiato il mio corpo inerme.

Un tempo, una persona a me estremamente cara, mi disse che nei miei testi manca sempre un lieto fine. Ho riflettuto a lungo su questo fatto, credendo di dover necessariamente colmare questa mia lacuna in qualche modo; meditando di più, prima di macchiare il foglio bianco d’inchiostro, e rileggendo più e più volte ciò che scrivo, per riuscire a trarne una conclusione avvincente, magari anche chiara e rosea, che potesse accontentare chiunque, soprattutto un pubblico femminile.

Con il passare del tempo ho capito che non avrei mai trovato casa mia, il mio posto nel mondo, la mia pace, accontentando chiunque, e mai me stessa.

Con il passare del tempo ho dedotto che i miei testi rappresentavano le mie lacrime.

Scrivere per me è come piangere, quelle lacrime d’inchiostro indelebile, riservate su un foglio sempre troppo lindo, pulito, limpido, che mascherava la mia livida vita. E’ giusto piazzare un lieto fine ad un testo, quando ancora nella tua vita non ne hai trovato uno?

Non sono neanche mai stata una bambina normale, e non so neanche bene che modello di vita seguissi, cosa aspirassi per la mia giovane esistenza, già nella mia più tenera età. Avevo le idee molto chiare, questo è certo. Volevo fare il calciatore, dal lunedì al giovedì, trascorrevo le mie giornate a collezionare figurine di calcio, e a studiarmi la vita di Buffon, riempiendo la mia cameretta di poster decisamente poco adatti ad una bambinella della mia età. Dal giovedì alla domenica, invece, volevo fare la cantante, sequestravo “Sorrisi e canzoni”, strappavo le pagine riguardanti il festival della canzone italiana, che seguivo assiduamente, e mi studiavo a memoria i testi delle canzoni.

Non sono mai stata normale, e non ho mai vissuto a pieno quella vita che mi scorreva accanto, non sentendola mia. Ho vissuto a braccetto con il disagio esistenziale, una bottiglia di vodka, e quella sigaretta che si fumava da sola; ma sopravvivevo nel limbo di un’esistenza che non era la mia, ed era solo la mia cooscienza a dirmelo, durante quelle giornate inutili e dissacranti, attraverso una morsa allo stomaco, che non accennava a passare mai.

Nei miei testi non metto mai un lieto fine, perchè annerire quei fogli immacolati con l’inchiostro corvino, presa dalla voglia di creare,e da quell’impeto, quella folle ossessione di lasciare una traccia di te sulla carta, rappresenta per me piangere lacrima sopo lacrima, tutto il dolore che mi porto dentro.

E se esistono ancora delle giornate inutili, dove tento con tutta me stessa di combattere contro un’apatia disarmante, è solo perchè la vita mi ricorda che ancora devo trovarlo il mio posto nel mondo, afferrare quella maledetta vita che mi scorre accanto sempre troppo in fretta, e farla mia; e permettere al mio essere di riposare l’anima, il cervello, sdraiata su quel pavimento nudo e freddo.

La vita m’insegna che non è mai troppo tardi per provare emozioni forti.

Ma non me ne preoccupo più; so che il giorno dopo la mia carta sarà sempre lì, ad aspettarmi, ad attendere l’inondazione delle mie calde lacrime d’inchiostro nero.

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