Quando sentii parlare per la prima volta di ΣΤΟ ΛΥΚΟ (sto lyko) To The Wolf, docudrama del 2013, diretto da Aran Hughes e Christina Koutsospyrou, ne fui affascinata. Non ci sarebbero stati palazzi, una moltitudine di gente (Atene contiene all’incirca metà della popolazione greca), non ci sarebbe stato il mare e il sole. Sin dall’incipit entriamo in un mondo lontano, almeno lo sembra, dominato dalla nebbia, dalla pioggia, dal belare delle capre. La modernità sta nei pali della corrente e nella crisi economica che sembra passare da quei fili elettrici, spargendosi nell’aria, entrando nelle case e infine colpendo i suoi abitanti.
Siamo in un remoto villaggio tra le montagne della Nafpaktia, regione della Grecia occidentale. La crisi è già arrivata, il vecchio Paxnis lo aveva previsto, e con la moglie vivono in una eterna attesa del peggio. Incapaci di comunicare e arrabbiati, sanno che l’unica cosa che resta è aspettare. Giorgios, invece, non riesce a vendere le sue capre, è inondato di debiti, l’unica soluzione sembra quella di rifugiarsi nel bere.
Questo senso di attesa perenne di qualcosa di orribile, Hughes e Koutsospyrou, riescono a trasmetterlo con dei lunghi momenti, quasi insopportabili, di staticità. La telecamera è come se inquadrasse un quadro naturalistico, una sola immagine fissa sullo schermo in cui l’unico movimento è dato dal rumore del vento e della pioggia che cade. Ma non mostra l’esigenza di un pasoliano ritorno alla purezza. La natura è spettatrice privilegiata della fine, indifferente guarda gli esseri umani colpiti da qualcosa che altri della loro specie hanno creato. Il silenzio è disperato, gli occhi sono disperati, perché la vera esigenza è quella di salvarsi ancora e ancora.
Guardando le loro vite, mi sono detta che non c’era una vera soluzione, e che la soluzione era quella spiattellata in faccia per tutto il documentario: l’attesa. Giorgos però è il portatore di una disperazione diversa. La sua è una disperazione primigenia che cerca un nascondiglio perché aspettare non può essere la soluzione.
La fine del docudrama è la conseguenza di tutto, il risultato che si ottiene quando si cerca di sopravvivere all’ineluttabile che ci insegue come se non ci muovessimo per niente. È una metafora di quello che succede quando da vittime ci trasformiamo in carnefici ma ad un tratto non sappiamo neanche distinguere a quali delle due categorie apparteniamo. Il titolo, al lupo, dice tutto ma chi è davvero il lupo? La crisi economica o noi? Oppure quello che rischiamo di diventare?
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